“Alla base della filosofia delle cure palliative c’è la convinzione che la vita va difesa fino all’ultimo istante: il malato inguaribile non è un ‘quasi morto’ ma una persona che ha diritto a vivere l’ultima parte della sua esistenza nel modo migliore e più significativo possibile”. Così è scritto nelle prime pagine di “Narrazione e fine-vita”, di Deborah Gordon e Carlo Peruselli (1). Peruselli, uno dei più noti palliativisti italiani, è attualmente responsabile della struttura complessa di cure palliative della ASL di Biella: in questa chiacchierata parliamo con lui di hospice.
In tutto il mondo gli hospice sono considerati l’espressione più qualificata delle cure di fine-vita. Queste strutture accolgono i malati in fase terminale che non possono essere seguiti a casa: il tempo medio trascorso in hospice dai singoli malati è compreso da 15 a 30 giorni, non raramente gli ultimi della vita. In Italia a che punto siamo?
La prima struttura assistenziale destinata ai malati terminali è stato il St. Christopher Hospice di Londra, entrato in funzione per iniziativa di Dame Cicely Saunders nel 1967. Questo modello è stato successivamente importato da molti Paesi occidentali attraverso un grande numero di istituzioni analoghe, ma per molti decenni è stato considerato in Italia come un traguardo irraggiungibile… Da noi alla fine degli anni ’90 erano operative pochissime strutture di questo tipo. La crescente consapevolezza, anche nell’opinione pubblica, della necessità di dover dare una risposta adeguata ai bisogni delle persone alla fine della vita e di conseguenza di sviluppare le cure palliative hanno prodotto, fra l’altro, la legge 39/2000. Firmata dall’allora Ministro della Sanità, Rosy Bindi, questa legge ha certamente contribuito a produrre i primi importanti cambiamenti. Alla fine del 2006 si contavano in Italia 105 hospice, gran parte dei quali finanziati con i fondi erogati dalla legge 39: ma entro il 2010 gli hospice in funzione sul territorio nazionale dovrebbero superare i 200 e i letti disponibili saranno il doppio rispetto ai 1229 del 2006.
Come leggere questi dati ?
In linea generale, la rapida crescita di hospice nel nostro Paese che si è verificata negli ultimi 10 anni non può che essere valutata positivamente: è andata a colmare un ritardo inaccettabile rispetto agli altri Paesi industrializzati. L’hospice, tuttavia, dovrebbe costituire il completamento di una Rete di cure palliative, che garantisca cure di elevata qualità alle persone nel loro ultimo periodo di vita. Anche nella loro casa, in ospedale, nelle strutture residenziali: purtroppo in molti casi ciò non è ancora avvenuto. Molti hospice si sono sviluppati come piccoli reparti di degenza con una migliore “umanizzazione” dei processi assistenziali ma senza un vero rapporto con le altre opzioni assistenziali della Rete.
Quali potrebbero essere le conseguenze?
Il rischio di uno stravolgimento degli obiettivi stessi per i quali queste strutture sono state ideate e organizzate: l’assenza di un rapporto “virtuoso” e strutturato fra cure palliative domiciliari e hospice potrebbe, in alcuni casi, produrre perfino processi di impropria istituzionalizzazione di malati alla fine della vita, che certamente non sarebbero nell’interesse dei pazienti e dei loro familiari. Considerazioni particolari valgono poi, almeno a mio parere, per il Centro-Sud.
Perché nel Meridione si registra una carenza di hospice?
È innegabile che nel Meridione del nostro Paese il numero degli hospice sia insufficiente. Ma non si può neppure ignorare il fatto che nella stessa area geografica, come ha ben documentato lo studio ISDOC recentemente pubblicato (2), le morti per cancro avvengono nella grande maggioranza a casa, pur nella quasi assoluta mancanza di cure palliative specialistiche domiciliari. Gli orientamenti culturali e la struttura familiare nelle nostre Regioni del Centro-Sud richiedono forse un’attenzione particolare rispetto ai bisogni reali di strutture hospice in quelle aree, con una sottolineatura ancora maggiore della necessità di un rapporto stretto fra hospice e cure palliative domiciliari, che dovrebbero essere fortemente potenziate.
In linea generale, come può essere definito il rapporto tra le cure di fine-vita erogate all’interno degli hospice e quelle che sono effettuate a casa del malato terminale ?
Come già detto, ogni hospice dovrebbe essere collegato a una rete organica ed efficiente di cure palliative domiciliari. Rispetto alle cure erogate a casa del malato, l’hospice dovrebbe essere in realtà come “una ciliegina sulla torta”: ma se manca la torta (ovvero le cure domiciliari), ci si può domandare se ha davvero senso parlare di hospice. Nella Rete di cure palliative della ASL di Biella, ad esempio, per ogni malato ricoverato in hospice ve ne sono almeno 5 assistiti a domicilio. La verità è che qualsiasi hospice, anche quando è ben condotto (come lo è la grande maggioranza degli hospice italiani), non riesce ad adempiere alla funzione per cui è stato istituito se è scollegato rispetto a una offerta sistematica di prestazioni sul territorio.
Come valutare la qualità dell’assistenza?
Ciò che qualifica un hospice di buon livello non è sicuramente la presenza di strumentazioni diagnostiche e terapeutiche sofisticate: ben altri sono i fattori che determinano la qualità dell’assistenza prestata, come peraltro anche nelle cure palliative domiciliari. La competenza tecnica, relazionale, etica degli operatori che lavorano in queste strutture è ciò che cambia davvero la qualità delle cure prestate, accanto alla organizzazione di un reale lavoro in équipe che permetta di dare le risposte più adeguate ai bisogni complessi dei malati alla fine della vita e dei loro familiari.
In un’ottica di personalizzazione delle cure…
Esattamente. Le cure palliative in hospice sono un insieme di interventi molto personalizzati, nei quali spesso ciò che fa la differenza è la “qualità” del rapporto che l’équipe sa instaurare con il paziente e i suoi familiari. È anche per questo che i costi dell’assistenza in hospice sono in gran parte collegati ai costi del personale che lavora in queste strutture. Purtroppo, ancora oggi i sistemi di tariffazione per le cure in hospice sono molto disomogenei sul territorio nazionale e, in alcuni casi, addirittura differenziati all’interno della stessa regione, con il rischio concreto di non poter garantire gli stessi standard assistenziali in strutture che pure hanno la stessa definizione formale di hospice.
In Italia non tutti gli hospice fanno capo al Servizio sanitario pubblico; molte volte sono gestiti da Associazioni no-profit o da enti privati.
È vero. Nel nostro Paese coesistono varie tipologie di gestione degli hospice, anche se all’interno delle singole Regioni può prevalere l’uno o l’altro modello. In linea di principio, tuttavia, questo è un dato che non ha necessariamente ricadute negative sulla omogeneità e sulla qualità dell’assistenza fornita, purché siano definiti con chiarezza e precisione gli standard strutturali ma soprattutto assistenziali che devono essere garantiti all’interno di queste strutture
Questo discorso rimanda a un problema che va al di là di quello che abbiamo fatto finora… Non è vero, forse, che in molti ospedali, i malati vengono ancora portati a morire nella stanza “in fondo al corridoio”, magari accanto a persone in attesa di intervento chirurgico o appena tornate dalla sala operatoria? E che il modo con cui si muore nei nostri ospedali è generalmente umiliante? E che nelle residenze per anziani accade forse anche di peggio? Dovremo concludere che saremo “fortunati” soltanto se riusciremo a morire in un buon hospice?
Effettivamente la situazione delle cure di fine-vita nei reparti ospedalieri e nelle strutture residenziali rappresenta in molti casi una sorta di “buco nero” per gli attuali sistemi sanitari, non solo in Italia. Se il problema di migliorare le cure di fine non verrà affrontato nel suo complesso, l’impegno su questo fronte delle cure palliative e degli hospice si ridurrà probabilmente ad una significativa testimonianza di ciò che si può concretamente fare – senza però riuscire a dare una risposta adeguata a bisogni tanto grandi e diffusi. Tuttavia, molto si sta facendo nella direzione giusta… Ad esempio, dapprima in Gran Bretagna e in molti altri paesi occidentali, ma adesso anche in Italia, sembrano aprirsi orizzonti nuovi per un miglioramento concreto e reale delle cure di fine-vita in molti setting di cura che finora erano rimasti lontani dall’attenzione ai bisogni dei malati alla fine della vita.
Ci sono degli esempi concreti?
L’applicazione delle Liverpool Care Pathways for the care of the dying (3), in atto da alcuni anni in molti ospedali inglesi ed europei, sembra in grado di raggiungere risultati molto positivi al riguardo: di fatto, si tratta di trasferire in modo diffuso agli operatori dei reparti ospedalieri o delle strutture residenziali alcune delle competenze che gli operatori delle cure palliative hanno acquisito nel campo delle cure di fine-vita. Anche in Italia è stato recentemente avviato uno studio sperimentale di applicazione della versione italiana delle Liverpool Care Pathways, coordinato dal dottor Massimo Costantini (4). Personalmente ho grande fiducia nella possibilità di successo di questo studio e più in generale nello sviluppo futuro di Reti di cure palliative che garantiscano cure di elevata qualità, in tutti i luoghi dove le persone vivono il loro ultimo periodo di vita.
Intervista a cura di Giovanni Padovani
Bibliografia
- Deborah Gordon e Carlo Peruselli. Narrazione e fine della vita. Nuove possibilità per valutare la qualità della vita e della morte. Franco Angeli edizioni, 2001.
- The Italian Survey of the Dying of Cancer (ISDOC): dall’analisi di una decina di articoli pubblicati riviste specialistiche è stato rilevato un quadro valido e rappresentativo dei problemi che devono affrontare i pazienti oncologici alla fine della vita. [fra questi: Beccaro M, Costantini M, Giorgi Rossi P, et al. (ISDOC Study Group). Actual and preferred place of death of cancer patients. Results from the Italian survey of the dying of cancer (ISDOC). Journal of Epidemiology and Community Health 2006; 60: 412-6].
- Liverpool Care Pathways for the care of the dying è un complesso programma di miglioramento della qualità delle cure di fine-vita che un servizio di cure palliative implementa in un reparto ospedaliero o in una RSA.
- In un’intervista sul’end-life care pubblicata su Va’ Pensiero (Diritto di scegliere fino alla fine) Massimo Costantini ha spiegato di aver introdotto a Genova, per la prima volta in Italia, il Liverpool Care Pathways for the care of the dying con “l’obiettivo di questo programma è rendere competenti gli operatori della struttura (sia medici sia infermieri) ad affrontare le problematiche del fine-vita per chi muore in ospedale o in RSA”.
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Hospice? Si può fare di più
“Alla base della filosofia delle cure palliative c’è la convinzione che la vita va difesa fino all’ultimo istante: il malato inguaribile non è un ‘quasi morto’ ma una persona che ha diritto a vivere l’ultima parte della sua esistenza nel modo migliore e più significativo possibile”. Così è scritto nelle prime pagine di “Narrazione e fine-vita”, di Deborah Gordon e Carlo Peruselli (1). Peruselli, uno dei più noti palliativisti italiani, è attualmente responsabile della struttura complessa di cure palliative della ASL di Biella: in questa chiacchierata parliamo con lui di hospice.
In tutto il mondo gli hospice sono considerati l’espressione più qualificata delle cure di fine-vita. Queste strutture accolgono i malati in fase terminale che non possono essere seguiti a casa: il tempo medio trascorso in hospice dai singoli malati è compreso da 15 a 30 giorni, non raramente gli ultimi della vita. In Italia a che punto siamo?
La prima struttura assistenziale destinata ai malati terminali è stato il St. Christopher Hospice di Londra, entrato in funzione per iniziativa di Dame Cicely Saunders nel 1967. Questo modello è stato successivamente importato da molti Paesi occidentali attraverso un grande numero di istituzioni analoghe, ma per molti decenni è stato considerato in Italia come un traguardo irraggiungibile… Da noi alla fine degli anni ’90 erano operative pochissime strutture di questo tipo. La crescente consapevolezza, anche nell’opinione pubblica, della necessità di dover dare una risposta adeguata ai bisogni delle persone alla fine della vita e di conseguenza di sviluppare le cure palliative hanno prodotto, fra l’altro, la legge 39/2000. Firmata dall’allora Ministro della Sanità, Rosy Bindi, questa legge ha certamente contribuito a produrre i primi importanti cambiamenti. Alla fine del 2006 si contavano in Italia 105 hospice, gran parte dei quali finanziati con i fondi erogati dalla legge 39: ma entro il 2010 gli hospice in funzione sul territorio nazionale dovrebbero superare i 200 e i letti disponibili saranno il doppio rispetto ai 1229 del 2006.
Come leggere questi dati ?
In linea generale, la rapida crescita di hospice nel nostro Paese che si è verificata negli ultimi 10 anni non può che essere valutata positivamente: è andata a colmare un ritardo inaccettabile rispetto agli altri Paesi industrializzati. L’hospice, tuttavia, dovrebbe costituire il completamento di una Rete di cure palliative, che garantisca cure di elevata qualità alle persone nel loro ultimo periodo di vita. Anche nella loro casa, in ospedale, nelle strutture residenziali: purtroppo in molti casi ciò non è ancora avvenuto. Molti hospice si sono sviluppati come piccoli reparti di degenza con una migliore “umanizzazione” dei processi assistenziali ma senza un vero rapporto con le altre opzioni assistenziali della Rete.
Quali potrebbero essere le conseguenze?
Il rischio di uno stravolgimento degli obiettivi stessi per i quali queste strutture sono state ideate e organizzate: l’assenza di un rapporto “virtuoso” e strutturato fra cure palliative domiciliari e hospice potrebbe, in alcuni casi, produrre perfino processi di impropria istituzionalizzazione di malati alla fine della vita, che certamente non sarebbero nell’interesse dei pazienti e dei loro familiari. Considerazioni particolari valgono poi, almeno a mio parere, per il Centro-Sud.
Perché nel Meridione si registra una carenza di hospice?
È innegabile che nel Meridione del nostro Paese il numero degli hospice sia insufficiente. Ma non si può neppure ignorare il fatto che nella stessa area geografica, come ha ben documentato lo studio ISDOC recentemente pubblicato (2), le morti per cancro avvengono nella grande maggioranza a casa, pur nella quasi assoluta mancanza di cure palliative specialistiche domiciliari. Gli orientamenti culturali e la struttura familiare nelle nostre Regioni del Centro-Sud richiedono forse un’attenzione particolare rispetto ai bisogni reali di strutture hospice in quelle aree, con una sottolineatura ancora maggiore della necessità di un rapporto stretto fra hospice e cure palliative domiciliari, che dovrebbero essere fortemente potenziate.
In linea generale, come può essere definito il rapporto tra le cure di fine-vita erogate all’interno degli hospice e quelle che sono effettuate a casa del malato terminale ?
Come già detto, ogni hospice dovrebbe essere collegato a una rete organica ed efficiente di cure palliative domiciliari. Rispetto alle cure erogate a casa del malato, l’hospice dovrebbe essere in realtà come “una ciliegina sulla torta”: ma se manca la torta (ovvero le cure domiciliari), ci si può domandare se ha davvero senso parlare di hospice. Nella Rete di cure palliative della ASL di Biella, ad esempio, per ogni malato ricoverato in hospice ve ne sono almeno 5 assistiti a domicilio. La verità è che qualsiasi hospice, anche quando è ben condotto (come lo è la grande maggioranza degli hospice italiani), non riesce ad adempiere alla funzione per cui è stato istituito se è scollegato rispetto a una offerta sistematica di prestazioni sul territorio.
Come valutare la qualità dell’assistenza?
Ciò che qualifica un hospice di buon livello non è sicuramente la presenza di strumentazioni diagnostiche e terapeutiche sofisticate: ben altri sono i fattori che determinano la qualità dell’assistenza prestata, come peraltro anche nelle cure palliative domiciliari. La competenza tecnica, relazionale, etica degli operatori che lavorano in queste strutture è ciò che cambia davvero la qualità delle cure prestate, accanto alla organizzazione di un reale lavoro in équipe che permetta di dare le risposte più adeguate ai bisogni complessi dei malati alla fine della vita e dei loro familiari.
In un’ottica di personalizzazione delle cure…
Esattamente. Le cure palliative in hospice sono un insieme di interventi molto personalizzati, nei quali spesso ciò che fa la differenza è la “qualità” del rapporto che l’équipe sa instaurare con il paziente e i suoi familiari. È anche per questo che i costi dell’assistenza in hospice sono in gran parte collegati ai costi del personale che lavora in queste strutture. Purtroppo, ancora oggi i sistemi di tariffazione per le cure in hospice sono molto disomogenei sul territorio nazionale e, in alcuni casi, addirittura differenziati all’interno della stessa regione, con il rischio concreto di non poter garantire gli stessi standard assistenziali in strutture che pure hanno la stessa definizione formale di hospice.
In Italia non tutti gli hospice fanno capo al Servizio sanitario pubblico; molte volte sono gestiti da Associazioni no-profit o da enti privati.
È vero. Nel nostro Paese coesistono varie tipologie di gestione degli hospice, anche se all’interno delle singole Regioni può prevalere l’uno o l’altro modello. In linea di principio, tuttavia, questo è un dato che non ha necessariamente ricadute negative sulla omogeneità e sulla qualità dell’assistenza fornita, purché siano definiti con chiarezza e precisione gli standard strutturali ma soprattutto assistenziali che devono essere garantiti all’interno di queste strutture
Questo discorso rimanda a un problema che va al di là di quello che abbiamo fatto finora… Non è vero, forse, che in molti ospedali, i malati vengono ancora portati a morire nella stanza “in fondo al corridoio”, magari accanto a persone in attesa di intervento chirurgico o appena tornate dalla sala operatoria? E che il modo con cui si muore nei nostri ospedali è generalmente umiliante? E che nelle residenze per anziani accade forse anche di peggio? Dovremo concludere che saremo “fortunati” soltanto se riusciremo a morire in un buon hospice?
Effettivamente la situazione delle cure di fine-vita nei reparti ospedalieri e nelle strutture residenziali rappresenta in molti casi una sorta di “buco nero” per gli attuali sistemi sanitari, non solo in Italia. Se il problema di migliorare le cure di fine non verrà affrontato nel suo complesso, l’impegno su questo fronte delle cure palliative e degli hospice si ridurrà probabilmente ad una significativa testimonianza di ciò che si può concretamente fare – senza però riuscire a dare una risposta adeguata a bisogni tanto grandi e diffusi. Tuttavia, molto si sta facendo nella direzione giusta… Ad esempio, dapprima in Gran Bretagna e in molti altri paesi occidentali, ma adesso anche in Italia, sembrano aprirsi orizzonti nuovi per un miglioramento concreto e reale delle cure di fine-vita in molti setting di cura che finora erano rimasti lontani dall’attenzione ai bisogni dei malati alla fine della vita.
Ci sono degli esempi concreti?
L’applicazione delle Liverpool Care Pathways for the care of the dying (3), in atto da alcuni anni in molti ospedali inglesi ed europei, sembra in grado di raggiungere risultati molto positivi al riguardo: di fatto, si tratta di trasferire in modo diffuso agli operatori dei reparti ospedalieri o delle strutture residenziali alcune delle competenze che gli operatori delle cure palliative hanno acquisito nel campo delle cure di fine-vita. Anche in Italia è stato recentemente avviato uno studio sperimentale di applicazione della versione italiana delle Liverpool Care Pathways, coordinato dal dottor Massimo Costantini (4). Personalmente ho grande fiducia nella possibilità di successo di questo studio e più in generale nello sviluppo futuro di Reti di cure palliative che garantiscano cure di elevata qualità, in tutti i luoghi dove le persone vivono il loro ultimo periodo di vita.
Intervista a cura di Giovanni Padovani
Bibliografia
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