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Il caso ospedali? Un problema anche di cultura
Il caso ospedali? Un problema anche di cultura | |
Marino Nonis, direttore generale Istituti Fisioterapici Ospitalieri (IFO), IRCCS, Roma. | |
Cosa ne pensa del “caso ospedali” sollevato dall’inchiesta dell’Espresso?
I problemi degli ospedali sono diversi. Da novello direttore generale di un IRCCS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico), ciò che mi fa riflettere – dopo la primaria preoccupazione di medico igienista (già per parecchio direttore sanitario ospedaliero), per i rischi di pazienti, visitatori ed operatori – è la constatazione dell’assenza di controllo o comunque di continuità di monitoraggio, che è tipica della nostra cultura. Ho pensato che spesso, noi italiani abbiamo dimostrato, già a partire dalle famose Grida dei “Promessi sposi”, che siamo molto bravi a definire in termini formali il reato e minacciare le relative pene, ma poi ci riesce difficile identificare il colpevole e punirlo. Nel “caso ospedali” di oggi? Nel caso di specie, sono certo che le Direzioni Sanitarie ed i Comitati per il controllo delle infezioni ospedaliere, abbiano svolto il proprio lavoro, elaborando specifici protocolli in linea con gli studi e con le evidenze, ma magari spesso non si è perseguito con determinazione l’obiettivo e monitorato adeguatamente la situazione. In sintesi: forse ci fa difetto una cultura della responsabilità e del controllo, come dimostra il caso del Policlinico di Roma, che rappresenta semplicemente la punta dell’iceberg di una situazione che affonda gran parte della propria massa nel sommerso. Crede l’inchiesta sortirà degli effetti in tutto in nostro Paese? L’inchiesta dell’Espresso è una denuncia di una situazione francamente indegna e difficilmente sostenibile da qualunque punto di vista: mi auguro che sia una opportunità vera per riflettere e maturare una cultura dell’appartenenza ad un’organizzazione (con le proprie specifiche regole, anche igieniche e di sicurezza) e del controllo, che coinvolga tutte le figure professionali coinvolte nell’assistenza: dall’uomo o la donna delle pulizie, al direttore generale, passando ovviamente per tutti gli operatori dell’ospedale, sanitari in primis. Ho pensato all’attualità del manifesto ‘The minimum standards of Hospitals’ scritto, nel 1919 dall’American College of Surgeons che già allora, quando certamente gli ospedali moderni erano appena nati, aveva previsto (punto 3 di 5 regole fondamentali) la necessità di adozione di un sistema di controllo interno alla professione medica. Era l’audit medico. Si tratta di un principio ancora valido… Certamente. La credibilità e la sicurezza di una professione e di un’organizzazione, quale l’ospedale, non possono che essere mantenute se non attraverso una continua applicazione del processo di verifica e valutazione, controllo o meglio, nel nostro caso autocontrollo. Come dicevo prima, noi siamo molto bravi nello scatto, ma meno capaci o comunque dobbiamo imparare a gestire una situazione nel tempo medio-lungo. La mancanza di continuità è un problema solo culturale? Questa è una mia personale impressione, un particolare della fotografia, che rappresenta una situazione ben più complessa, non riassumibile sorseggiando un caffè! Ci sono tantissimi elementi, che vanno dalla struttura, dall’organizzazione generale, ai ruoli dei manager o della dirigenza medica. La condivisione della responsabilità manageriale avviene per tutti i medici indipendentemente che siano direttori di una struttura complessa o ‘ex’ aiuti. Per essere dirigenti, non basta essere dottori: occorre condividere, come in tutte le aziende, il rischio imprenditoriale e d’impresa: il medico non è più solo un dipendente, un esecutivo, seppure di alto livello, ma deve dare il proprio contributo all’organizzazione dell’azienda. Indipendentemente che sia stata raggiunta per via legislativa o contrattuale, la dirigenza del SSN rappresenta un nodo epocale che probabilmente deve ancora trovare piena applicazione e comprensione. E’ un altro tassello di un puzzle complesso: non ne sono proprio certo, ma abbastanza convinto sì: la dimensione culturale, in senso lato, gioca un ruolo importante in questa situazione. Che problema pone il caso degli ospedali ai manager delle strutture sanitarie? Senz’altro un problema di definizione delle responsabilità. Molte prescrizioni e procedure sono già scritte nelle gare di appalto, molte altre nei verbali delle commissioni per la lotta alle infezioni ospedaliere e nei protocolli diagnostici-terapeutici per la sicurezza del paziente. Ma ciò che manca mi sembra sia una maggiore attenzione alla applicazione e alla applicabilità dei protocolli: l’inadempienza potrebbe essere causata, almeno in alcuni casi, dal comportamento indisciplinato del personale; in altri casi, non sono da escludere ragioni pratiche od ostacoli strutturali, diversi di volta in volta. Quindi non è solo la struttura che andrebbe risanata… Non è solo quella. Anche il comportamento di chi lavora nella struttura ha un suo peso. Ovviamente non si può pensare di gestire con il codice disciplinare questo problema. Nel lavoro del manager c’è un’importante funzione educativa, pedagogica e le sanzioni possono essere utili in qualche caso. Sembra che non tutti gli ospedali italiani si siano dotati di strumenti di controllo delle strutture e delle condizioni igieniche: crede sia un problema di fondi, di risorse umane o cosa? Tutti i processi di esternalizzazione del lavoro in ospedale, che vanno dalle pulizie, alla manutenzione od al trasporto di malati, contemplano sempre sistemi di monitoraggio e verifica, ma questo non vuol dire, a priori, che vengano poi adeguatamente e puntualmente adottati. Bisognerebbe verificare che la catena del controllo sia ben definita e funzionante: ci dovrebbe essere qualcuno che ha il ruolo di verificare che siano stati rispettati i protocolli. Un controllo dei controllori… Perch il sistema giri per il verso giusto, è necessaria un’organizzazione del controllo, ma anche la costanza nella volontà di farla funzionare. Ci possono poi essere anche aspetti umanamente comprensibili, ma non proprio corretti… penso alle condizioni di lavoro precario e poco garantito di alcuni addetti di ditte esterne: talora, si crea naturalmente un clima di solidarietà con i dipendenti, che magari fa chiudere un occhio rispetto a piccole inadempienze. Peccati veniali, per carità, ma se si ripetono, la qualità può essere compromessa. Il giornalista dell’Espresso scrive che “dopo tutto queste situazioni, aumenterà l’esodo dei pazienti verso la sanità privata”. Lei che ne pensa? È indiscutibile che il paziente valuti la qualità del servizio, non solo sulla base del valore intrinseco della prestazione fornita, ma anche dalla percezione che ha della stessa e dal contesto in cui essa viene erogata. Trovarsi su di un letto arrugginito, in una corsia con più letti senza un minimo di decoro e di comfort, comporta un impatto completamente diverso da quello offerto da camere singole, rispetto della privacy e cura dell’aspetto igienico ed alberghiero; è logico che il paziente si senta più sicuro e protetto in questo secondo contesto. Tuttavia teniamo presente che la spinta verso il privato non avviene, n avverrà, nella stessa misura lungo tutto lo stivale. In che senso? Il contesto romano è diverso da quello che si trova ad esempio in provincia o in altre regioni. Provengo dal Nord-Est: là le strutture private, accreditate o meno con il SSN, sono minoritarie. A Roma invece c’è una maggiore concorrenza e offerta di centri di eccellenza: quattro facoltà di medicina, due istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, diverse aziende ospedaliere e una serie di ospedali e presidi pubblici e accanto… una miriade di soggetti privati. Il caso 'Ospedali'
16 gennaio 2006 |
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