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Il pediatra e l'aggiornamento
Come si aggiornano i pediatri?
Alcune informazioni possono essere prese da un’indagine promossa fra i propri lettori da Quaderni acp, la rivista dell’Associazione Culturale Pediatri, che conta circa 3.000 soci. Tra le diverse modalità di aggiornamento, la metà dei rispondenti predilige i corsi, l’altra metà invece opta per la lettura, gli incontri con un esperto e le riunioni fra pari; i congressi frontali hanno minore gradimento. Sempre dall’indagine è emerso che i pediatri dedicano alla lettura una media di 5 ore settimanali: il 42 per cento legge riviste e di questi il 43 per cento legge riviste sia italiane sia inglesi, di cui The Journal of Pediatrics è la preferita. Alla domanda sulle modalità di lettura specificatamente di Quaderni, la rivista promotrice dell’indagine, il 40 per cento risponde di leggerne ogni numero e sostanzialmente per intero, compresa la parte più innovativa che si richiama agli scenari clinici di Sackett (si tratta di una “produzione” interna promossa gruppi di soci dell’Associazione che viene messa a disposizione sulla rivista cartacea e anche sul Web). Questi dati possono darci un’idea di come si aggiornano i pediatri, tuttavia va considerato che il campione non rispecchia la totalità dei pediatri perché all’indagine hanno partecipato solo persone che ricevono una rivista o per abbonamento o per adesione ad una associazione.
In realtà i congressi sono più frequentati…
Certamente. I congressi frontali sono molto frequentati ed è particolarmente alto (vicino al 100 per cento) il numero dei pediatri che vi partecipano con la sponsorizzazione delle ditte di farmaci ed alimenti. In questo ambito, mi pare che le norme dell’ECM abbiano cambiato abbastanza poco. Nel corpo del congresso, continuano ad esserci tavole rotonde sponsorizzate dalla industria; e poi non mancano i “corsi” con aspetto più turistico che formativo… Ne è un esempio “La settimana pediatrica sugli sci a Madonna di Campiglio” che attribuisce 13 crediti per due, tre ore di aggiornamento giornaliero, in programma alle 4 del pomeriggio nelle 5 giornate del congresso. Le cosiddette “verifiche” che si svolgono alla conclusione dei corsi, consistono nella compilazione di schede molto spesso fatte in gruppo, talora redatte addirittura in aula sotto la guida del moderatore (e qualche volta inserite addirittura nel programma del congresso!). Comunque anche se la compilazione fosse autenticamente personale, testerebbe solo l’acquisizione di conoscenze teoriche, che potevano già esserci prima del corso, e non “il saper fare”. Purtroppo in Italia non c’è alcuna guida né alcuna esperienza sul come produrre materiale valutativo capace di testare “il saper fare” dopo un congresso frontale, per cui non c’è da scandalizzarci per le modalità elusive di questa pratica compilativa.
Come invece sarebbe augurabile si aggiornassero?
Ci sono due aspetti del problema aggiornamento in medicina: uno teorico, cioè cosa dovrebbe offrire il sistema educativo; l’altro più reale, cioè cosa il “mercato” offre effettivamente e, quindi, cosa i pediatri possono di fatto scegliere. Essi dovrebbero sapere che cosa servirebbe imparare e dovrebbero avere introiettato la nozione che la formazione deriva soprattutto dalla esperienza, dal fare, cioè dal problem solving.
È quindi un problema metodologico…
Gli stessi provider (parola veramente orribile!) dovrebbero ricordarsi che la modalità più efficace per la formazione è il problem solving e che gli adulti imparano meglio quando l’argomento ha un’applicazione immediata, che ci si dovrebbe concentrare più sul processo formativo e meno sui contenuti. In sostanza vanno meglio le strategie che includono risoluzione di casi, role playing, simulazioni di ambulatorio con valutazione successiva, e molto meno relazioni, letture, comunicazioni che sono invece la parte dominante nel “mercato”. Inoltre, i medici dovrebbero essere coinvolti nella preparazione della formazione che andranno a fare o progetteranno. Di strategie veramente utili – è importante ripeterlo – il “mercato” offre praticamente nulla, ed allora la progettazione autonoma degli eventi formativi da parte di piccoli gruppi diventa essenziale.
Ci può fare degli esempi?
Può essere interessante l’esperienza della Associazione Culturale Pediatri che è formata da una trentina di gruppi regionali. Quando, negli anni ’80-’90, si è trattato di passare dalla formazione di tipo frontale a quella del piccolo gruppo con esperto, il percorso è stato facile. Oggi invece è molto meno facile passare ad una formazione che abbia come esperto la ricerca di evidenze in letteratura; ed è molto meno facile passare alle metodologie formative fondate sul processo di cui si è detto sopra. C’è un altro ambito formativo poco e male frequentato: è la ricerca nell’ambito delle cure primarie limitata, per la maggior parte, alla compilazione di schede preparate dalla industria o da istituti universitari senza nessuna partecipazione alla progettazione della ricerca da parte dei compilatori. Evidentemente questa “partecipazione”, del tutto passiva, non ha alcuna capacità formativa ed è veramente un peccato perché la ricerca dovrebbe essere intesa come elemento formativo di grande spessore.
Qual è la sua rivista preferita di medicina interna?
The Lancet.
E quale di medicina specialistica?
Starei per ripetere The Lancet, dove il pediatra trova tutto quello che gli serve, ma aggiungo gli Archives of disease in childhood. Come vede sono due riviste in lingua inglese, ambedue anglosassoni.
A quale congresso lei cerca di “non mancare”?
Se penso all’utilità formativa non me ne viene in mente nessuno.
Qual è il suo giudizio sui nuovi strumenti di educazione continua a distanza?
Mi sembra che stiamo peccando di provincialismo. La formazione a distanza (FAD) in Italia ha una tradizione antica. Le dispense universitarie e gli stessi libri sono formazione a distanza; i pediatri italiani della mia generazione si sono formati più sul Nelson Textbook of pediatrics che sulle lezioni universitarie dalle quali hanno imparato ben poco. Ho degli amici che, dopo la scuola media, non potendo frequentare le scuole, si sono diplomati elettrotecnici con i corsi per corrispondenza dell’Istituto Galileo Ferraris. Anche i corsi delle Università popolari della mia Romagna, nei primi del 1900, organizzati dai partiti della sinistra per la diffusione della “alfabetizzazione e cultura popolare”, realizzavano la formazione a distanza: si fondavano su commoventi opuscoletti distribuiti, letti a casa e poi discussi in riunioni pubbliche. Poi ci sono riviste di lingua inglese che, sulla base della compilazione e rinvio di questionari, praticavano la FAD, con distribuzione di attestati, già nei primi anni Ottanta.
E oggi cosa è cambiato?
Oggi la novità sta negli strumenti: la FAD si fa con strumenti informatici. Quindi sono necessari due elementi. Il primo è una buona padronanza di questi da parte degli utenti – che a mia conoscenza non c’è ancora in quanto ci si limita (anche da parte mia) ad una modesta alfabetizzazione informatica. Il secondo è una buona qualità dell’offerta ma anche essa, per quanto ne so, è molto limitata.
C’è poi un altro fattore limitante: il rischio che la FAD sia compatibile con un apprendimento di tipo teorico non molto diverso da quello che si fa in congressi frontali, cioè fondato sui contenuti, sulla memorizzazione delle nozioni e non su un processo di apprendimento applicabile poi a tutti gli ambiti formativi.