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Infermieri in prima linea

Dopo avere presentato il punto di vista di due palliativisti – Massimo Costantini e Franco Toscani – sul delicato tema dell’end-life care, Giovanni Padovani incontra Paola Di Giulio per capire il ruolo reale degli infermieri nella presa in carico del malato terminale. Negli ultimi anni Paola Di Giulio è stata tra i ricercatori italiani che hanno firmato importanti indagini sulle cure di fine-vita praticate negli ospedali e nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA) del nostro Paese (1).

Si dice spesso che – per essere efficaci – le cure palliative e di fine-vita hanno bisogno di buoni medici ma soprattutto di un gruppo numeroso di ottimi infermieri…

Si possono portare molti esempi a sostegno di questa tesi: uno dei più eloquenti è quello relativo al controllo del dolore. Soltanto una assidua sorveglianza da parte degli infermieri, in particolare quando il paziente è a domicilio, è in grado di trasformare le prescrizione medica in una terapia efficace e personalizzata. Per il ruolo che occupa, il medico ha il compito di decidere quale terapia analgesica avviare, il farmaco, il dosaggio e la via di somministrazione da utilizzare; e, ancora, un eventuale aggiustamento della terapia. Ma è l’infermiere che verifica se la cura adottata è quella corretta. Può accadere, infatti, che il dolore continui a farsi sentire anche dopo la somministrazione dell’analgesico; o che i farmaci producano effetti indesiderati non previsti; o che i dosaggi siano inadeguati; altre volte la reazione all’analgesico suggerisce che risultati analoghi potrebbero essere ottenuti anche con una dose di farmaci minore di quella prescritta. Senza contare poi la valutazione della reazione anche psicologica alla cura.

Il ruolo dell’infermiere viene debitamente riconosciuto?

Dipende. Negli Hospice e nelle terapie domiciliari eseguite in regime di Hospice l’autonomia operativa dell’infermiere è tradizionalmente molto ampia e il suo ruolo esplicitamente riconosciuto. Ma, generalmente, quanto avviene in ospedale e nelle RSA nazionali è in molti casi lontano anni-luce da questo tipo di esperienza: nei reparti ospedalieri e nelle residenze per anziani, infatti, la filosofia e la pratica delle cure di fine-vita e più in generale, della medicina palliativa, sono generalmente assenti. Questo lo vediamo in Italia e, purtroppo, anche all’estero. Ma in queste situazioni è l’assistenza nel suo insieme che deve convertirsi alle cure dei malati terminali e alla loro logica: al di fuori del cambiamento dell’intero sistema, la questione del ruolo infermieristico è priva di senso.

Il problema quindi sta a monte…

Sì. Va però sottolineato che la questione, prima che tecnica, è culturale e consiste nel rivedere obiettivi e metodi dell’intervento medico. Per le persone con un limitato spazio di vita davanti la logica del “più cure meglio è” non soltanto è ininfluente ma può peggiorare la situazione. Gli unici interventi utili nelle situazioni di fine-vita sono il controllo efficace dei sintomi e il miglioramento complessivo della qualità di vita. In questa ottica le prestazioni dell’infermiere hanno un ruolo importantissimo: ci sono diversi aspetti dell’assistenza infermieristica di base che sono tecnicamente semplici ma fondamentali per il malato (2). E naturalmente il ruolo di accompagnamento e sostegno psicologico sia al paziente che alla famiglia. Sia i medici che gli infermieri devono sviluppare, inoltre, la capacità di capire quando sospendere trattamenti attivi, sia diagnostici che terapeutici, ormai inutili.

Ci può fare degli esempi?

Negli anni ’90 diverse indagini internazionali hanno valutato le cure di fine-vita erogate più spesso e i loro risultati. Tra questi il più importante è il SUPPORT, un’indagine eseguita nel 1995 su 4800 malati, tutti in condizioni critiche, ricoverati in 5 grandi ospedali degli Stati Uniti (3). Colpiti da diverse patologie (dal tumore alle malattie cardiache e polmonari, dal coma alla cirrosi), questi pazienti sono stati seguiti per un periodo di due anni. Le principali criticità rilevate sono state un ricorso insufficiente a cure in grado di controllare i sintomi, l’abitudine a instaurare o prolungare terapie inutilmente aggressive e la tendenza a trattare tutti i malati terminali allo stesso modo. La situazione delle cure di fine-vita descritta in questo studio è stata definita come “allarmante” e “scoraggiante”.

E per quanto riguarda il contesto italiano?

Con un ritardo di qualche anno, anche nel nostro Paese sono stati condotti studi importanti sul tema delle cure di fine-vita: nelle puntate precedenti di Va’ Pensiero ne hanno parlato Massimo Costantini e Franco Toscani. Queste indagini hanno confermato e integrato i risultati delle grandi ricerche internazionali. Ma anche le conclusioni di altri studi minori o ancora in corso pongono alcuni importanti interrogativi e sottolineano come la qualità di vita del malato in condizioni critiche sia spesso sacrificata a interventi diagnostici e terapeutici che sono, d’altra parte, di discutibile utilità.

Nella gestione delle cure di fine-vita si riscontra una forte variabilità tra l’Italia e gli altri Paesi?

Sì. Molti dati, in particolare, ribadiscono che da noi il pregiudizio anti-morfina pesa molto più che altrove nel negare o limitare la terapia analgesica. E in tutte le decisioni critiche è evidente l’handicap, tutto italiano, della indisponibilità dello strumento legale delle direttive anticipate. Ma non c’è soltanto questo. Recentemente, discutendo con un gruppo olandese considerato a livello internazionale come un gruppo-leader nella gestione dei malati di Alzheimer in fase terminale, abbiamo scoperto che da noi le logiche di gestione dei malati di questo tipo sono molto diverse da quelle adottate altrove.

Ci può fare anche in questo caso un esempio?

Stiamo conducendo uno studio centrato su una coorte di pazienti con demenza grave. Ebbene, mentre in Italia il comportamento normale è l’introduzione di una PEG o un sondino nasogastrico, in Olanda, quando il malato arriva al punto di rifiutarsi di mangiare e bere, in genere si ritiene ingiustificato il prolungamento di una sofferenza che comunque non avrebbe esito diverso dalla morte. Iniziare un trattamento di alimentazione artificiale non è la regola. Naturalmente decisioni di questo tipo non sono mai facili e vanno comunque confrontate sia alle condizioni cliniche complessive dei singoli malati sia a eventuali direttive anticipate. Si tratta soltanto di un esempio: rimane vero che soprattutto nelle aree più complesse delle cure di fine-vita la forbice tra filosofie diverse delle cure palliative e di fine-vita tende ad allargarsi. Anche questa è una informazione e un tema di discussione che non può essere sottratta a medici e infermieri.

È ipotizzabile una svolta in positivo nelle cure di fine-vita ?

Se la domanda si riferisce a quanto avviene nei reparti ospedalieri e nelle RSA, ripeto che più che di una svolta si tratta, a mio parere, di un inizio. Ma in linea di massima le linee da seguire potrebbero essere due: in primo luogo parlare del problema e chiarirlo, in secondo luogo rivedere e migliorare l’organizzazione del lavoro degli infermieri.

Il primo passo quindi è discutere del problema…
Molti degli esempi fatti in precedenza richiamano tematiche di cui non si discute mai o si discute male. Va ribadito che il problema delle cure di fine-vita deve essere affrontato innanzitutto sul piano culturale, dove medici e infermieri devono confrontarsi tra loro. Il punto di arrivo è la definizione condivisa di piani di presa in carico e trattamento: non è facile lavorare quando il medico prosegue i trattamenti e l’infermiere ritiene invece che il paziente andrebbe solo accompagnato (o viceversa). E va coinvolta attivamente anche la famiglia che, in caso contrario, può costituire una vera e propria barriera tra l’équipe medico-infermieristica e il malato.

E l’assistenza infermieristica come andrebbe riformata?

Senza scardinare gli inevitabili ritmi della routine ospedaliera e senza incrementare la spesa sanitaria, una assistenza infermieristica non più per funzioni ma “personalizzata” potrebbe facilitare il contatto con i malati soprattutto nel periodo di fine-vita. Questo nuovo modello organizzativo del lavoro infermieristico è stato proposto negli anni Settanta da un’infermiera americana, Marie Manthey (4). Ma a distanza di decenni in Italia è applicato soltanto sporadicamente. Tra le riforme organizzative non più procrastinabili vi è anche il rispetto della privacy. Nonostante dai nostri dati emerga che c’è lo sforzo di tenere il paziente in stanza singola o con pochi letti, si può ancora fare molto per garantire il bisogno di intimità del morente e dei suoi familiari o amici che viene ancora costretto, in molti casi, negli angusti confini di un paravento disteso attorno al letto.

29 ottobre 2008
Intervista a cura di Giovanni Padovani

Note e riferimenti bibliografici

  1. Ci riferiamo in particolare allo studio EOLO sulle terapie che nelle 72 ore precedenti la morte sono state erogate in 40 ospedali del Centro-Nord [Toscani F, Di Giulio P, Brunelli C, Miccinesi G, Laquintana D. How people die in hospital general wards: a descriptive study. Journal of Pain and Symptom Management 2005; 30: 33-40]; e all’indagine che valuta le cure di fine-vita somministrate a 141 anziani con Alzheimer deceduti in 7 RSA della provincia di Cremona (Di Giulio P, Toscani F, Villani D, et al. Dying with advanced dementia in long-term care geriatric institutions: a retrospective study. J Palliat Med 2008; 11: 1023-8].
  2. Ad esempio la cura del cavo orale, il posizionamento nel letto, la cura della cute nei pazienti con metastasi cutanee. Sono elementi essenziali dell’assistenza che vengono eseguiti direttamente dagli infermieri e insegnati ai familiari o a chi si occupa del paziente.
  3. Support Principal investigators. A controlled trial to improve care of seriously ill hospitalised patients: The Study to Unterstand Prognoses and Preferences for Outcomes and Risks of Treatments (SUPPORT). Jama 1995; 274: 1591-8.
  4. M. Manthey. La pratica nel primary nursing – L’erogazione dell’assistenza basata sulle relazioni e guidata dalle risorse. Roma, Il Pensiero scientifico editore, 2008.

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