In primo piano
L’epidemiologo e l’aggiornamento
Come si aggiorna il medico nel campo della epidemiologia?
Bisogna premettere che con il termine epidemiologia si intendono due cose diverse: da un lato, esiste un bagaglio di conoscenze sui metodi e sulle tecniche statistiche, che sono lo strumento indispensabile per condurre e interpretare qualsiasi ricerca epidemiologica e clinica; dall’altro vi sono le conoscenze sulla frequenza e sui determinanti di una condizione clinica. Questo secondo tipo di informazioni può essere facilmente acquisito e aggiornato, anche se non di rado è facile fornirne interpretazioni incomplete, fuorvianti o grossolanamente sbagliate, come spesso capita di leggere o vedere sui media. Invece, la formazione in metodologia epidemiologica e statistica in Italia è stata tradizionalmente molto carente. Di fatto i medici, che oggi hanno più di 45-50 anni, non hanno ricevuto un’adeguata formazione in questo settore e si devono confrontare con problematiche soprattutto di carattere clinico, ma anche di prevenzione, che per una corretta interpretazione richiedono un background di metodologico-statistico. Per loro risulta molto difficile aggiornarsi sul piano metodologico poiché spesso questo significa partire quasi da zero…
Bel problema no?
La situazione si sta lentamente modificando, e non solo per il fatto che alcuni concetti epidemiologici e statistici di base vengono insegnati nei corsi universitari di laurea in medicina o nelle scuole di specializzazione. In realtà, la cultura epidemiologica e statistica si è diffusa nel nostro Paese soprattutto attraverso il rapporto, relativamente recente, con la ricerca e la pubblicistica scientifica internazionale. D’altra parte, l’aggiornamento in campo metodologico-statistico, che è trasversale per definizione, è difficile da ottenere all’interno di programmi di formazione specialistica, solitamente focalizzati su tematiche di merito.
Quindi come si aggiorna il medico?
Direi che la maggior fonte di informazione e formazione per i medici di oggi (soprattutto per coloro che lavorano all’interno di strutture ospedaliere) è la partecipazione a ricerche: è la modalità di formazione più utile ed efficace. Esistono poi dei mini-corsi (1-3 giorni) e non è raro che lezioni metodologiche o statistiche vengano inserite all’interno di corsi specialistici.
E come si aggiorna l’epidemiologo?
Essenzialmente segue due tipi di aggiornamento: uno riguarda gli aspetti metodologici e statistici, e procede con molta lentezza perché l’evoluzione di queste discipline si sviluppa su tempi molto lunghi, soprattutto in termini di diffusione e accettazione da parte della comunità scientifica; l’altro è un aggiornamento di merito sulle problematiche che lo specialista incontra nella sua attività quotidiana. Nel primo caso, l’aggiornamento avviene sostanzialmente attraverso la lettura di articoli e l’iscrizione a corsi specializzati che illustrano una particolare tecnica statistico-epidemiologica sviluppata negli ultimi anni. Nel secondo caso, invece, segue percorsi più tradizionali che contemplano la partecipazione a congressi e la lettura di riviste scientifiche.
L’epidemiologo necessita dunque di un aggiornamento assiduo ma anche multisciplinare che abbracci più materie, anche al di fuori della medicina quali l’economia.
Una preparazione e un aggiornamento a tutto tondo potrebbero essere utili ma non sono concretamente realizzabili. Pertanto la tendenza è quella di privilegiare alcuni settori piuttosto che altri e di dare delle priorità, in relazione alle problematiche che ognuno incontra nella propria professione e agli interessi personali. Poi per l’epidemiologo è più facile cercare competenze diverse dalle proprie e interagire con esse perché è già predisposto lavorando in un campo multidisciplinare. La ricerca epidemiologica viene infatti pensata, condotta e interpretata attraverso competenze multiple e complementari. L’epidemiologo inoltre, data la sua impostazione metodologica e la sua abitudine a formulare e affrontare i problemi in termini quantitativi, ha forse maggiore facilità di altri specialisti della medicina a confrontarsi con problematiche e tecniche che gli sono nuove. C’è però da evitare il rischio che chi possiede competenze epidemiologiche e statistiche sia considerato (o ancora peggio, si consideri) una specie di tuttologo, che leggendo un paio di articoli si può facilmente convertire da metodologo e statistico di studi clinici oncologici in un esperto in grado di fare valutazioni costi-benefici nel campo della microchirurgia oculistica.
Qual è il suo giudizio sui nuovi strumenti di educazione continua a distanza?
Anche qui deve essere fatta una premessa. Differentemente da altre specializzazioni in medicina (quali ad esempio la chirurgia) l’epidemiologia rappresenta uno strumento indispensabile a tutti i medici e non solo allo specialista. Come può un medico interpretare criricamente la letteratura, capire il significato, l’importanza e i limiti di un articolo scientifico o di una presentazione a un congresso, senza una conoscenza minima di metodologia e statistica? Bisogna quindi ragionare su un continuum di formazione che va dall’epidemiologo super-specialista, impegnato nella ricerca di nuove metodologie, che rappresenta un personaggio di frontiera impegnato ad aprire nuove strade, al medico ospedaliero che partecipando alla stesura di linee-guida deve leggere articoli scientifici. Tutte queste figure professionali usano una parte consistente di strumenti simili se non addirittura uguali. In questo continuum, la formazione a distanza (FAD) può servire al medico per il quale la conoscenza epidemiologica non è uno strumento prioritario bensì aggiuntivo. Per questo tipo di esigenze, la FAD va bene e probabilmente è superiore ai mini-corsi perché lascia al discente i tempi necessari per l’apprendimento delle problematiche epidemiologiche, che richiedono riflessioni abbastanza lunghe. Per lo specialistica, invece, non può ricoprire lo stessa funzione perché, fondamentalmente, lo statistico-epidemiologo apprende nuove tecniche e metodologie quando deve utilizzarle.
Presentandole la serie delle interviste di Và Pensiero dedicata all’ECM, ironicamente mi aveva confessato che lei si definisce “un disastroso autodidatta”. Può dare alcuni suggerimenti ai colleghi su come percorrere la strada dell’autoformazione nel migliore dei modi?
Sono dell’idea che in tutti i campi la formazione trovi la sua massima utilità quando viene applicata. Per apprendere l’epidemiologia, il medico dovrebbe partecipare a sperimentazioni cliniche, a progetti di ricerca preventiva e a studi epidemiologici, alla stesura di linee-guida, ecc. perché questo lo costringe a riflettere sui problemi metodologici e su determinati concetti dell’epidemiologia, e a discuterne con i colleghi. Nel corso della mia carriera, ho visto dei medici di formazione clinica diventare degli ottimi epidemiologi proprio impegnandosi in problematiche di ricerca.
Anche il confronto con i colleghi serve alla formazione?
Dal confronto con colleghi di competenze diverse che si apre naturalmente partecipando a programmi di ricerca, il medico trae sempre degli insegnamenti e viene stimolato ad apprendere e a criticare. Credo che da soli sia difficile individuare le proprie carenze e i propri errori concettuali.
Cercare la formazione al di fuori dei programmi nazionali non viene premiato con i crediti. Percorrere questa “via indipendente” potrebbe rallentare la corsa al punteggio…
Sicuramente non è proficua da questo punto di vista… Ma la partecipazione attiva a qualsiasi programma di ricerca di un certo livello dovrebbe valere in termini di crediti formativi (almeno) quanto la partecipazione a un corso.
Qual è la sua rivista preferita di medicina interna?
In prima fila metto il British Medical Journal. Anche se non ha la stessa portata innovativa del New England Journal of Medicine e di Lancet – le due riviste di medicina interna più prestigiose – il British Medical Journal ha un’impronta molto più attenta alle problematiche di sanità pubblica, di epidemiologia e di innovazione metodologica statistica.
Quale invece la sua rivista preferita di medicina specialistica?
Come ricercatore sul cancro il Journal of the National Cancer Institute; come epidemiologo l’American Journal of Epidemiology.
A quale congresso lei cerca di “non mancare”?
Praticamente non frequento congressi se non quando sono invitato a presentare qualcosa.
Come dire che il congresso non è il luogo migliore per la formazione e per l’aggiornamento…
La partecipazione al congresso richiede delle notevoli capacità di resistenza fisica per seguire decine di relazioni, spesso noiose o di scarso interesse personale, nella stessa giornata e magari succede che proprio quando arriva la presentazione che interessa si sia troppo stanchi e si ceda al sonno! Insomma, per quel che riguarda la formazione trovo i congressi disastrosi sul piano del rapporto tra costi e benefici.
Intravede altri strumenti non canonici per proseguire la (auto)formazione al di fuori dell’ambiente medico (narrativa, cinema, arte ecc.)?
Penso che la serie televisiva “ER – Medici in prima linea” sia un buon esempio. Mi ricordo di una puntata che aveva toccato in maniera lucida e corretta la problematica sul diritto all’autodeterminazione di un paziente. Credo che anche uno sceneggiato televisivo come ER – quando realizzato con rigore – possa avere un ruolo nella formazione. Poi, per quanto riguarda nello specifico il mio settore, un accrescimento delle conoscenze deve necessariamente transitare attraverso l’acquisizione di alcuni concetti ostici: la medicina come scienza basata sulla probabilità è un concetto difficile da accettare per tutti, non solo per il clinico, che non entra facilmente nella testa della persone. In questo senso, la lettura di alcuni testi divulgativi in altre discipline, ad esempio la fisica, mi è stata molto utile. Devo però confessare che il mio amore per la statistica è nato molto presto, prima che mi iscrivessi a Medicina, leggendo un vecchio libro trovato in casa sulla teoria dei giochi d’azzardo, nella speranza di trovare il modo di vincere. Ancora oggi, quando faccio lezione, gli esempi tratti dalla roulette sono quelli che attraggono maggiore attenzione.
Una trasmissione come ER potrebbe anche servire a guardare il contesto con l’occhio del paziente. Quando lei si trova nella parte del paziente come osserva l’aggiornamento del medico?
Noi epidemiologi tendiamo ad essere molto diffidenti nei confronti dei clinici. L’influenza dell’epidemiologia è infatti cresciuta, forse troppo, per una serie di errori metodologici e analfabetismi culturali della medicina clinica. Quindi certe affermazioni apodittiche e certi comportamenti improntati a sicurezza, o addirittura arroganza, sono sempre vissuti con estrema diffidenza. Però devo riconoscere che negli ultimi anni, quando mi sono trovato ad essere il paziente o, più spesso, nella posizione di rappresentare qualche paziente, mi sono confrontato con colleghi ben preparati anche sul piano culturale. Credo che un medico di una certa esperienza abbia degli strumenti per capire l’affidabilità di un collega e rendersi contro del suo livello di competenza.
Competenza o conoscenza?
La competenza del medico non equivale al suo personale bagaglio di conoscenze acquisite nella pratica perché, oggi giorno, le conoscenze sono a disposizione di tutti. La competenza del medico di oggi viene dimostrata dalla capacità di integrare tutte le conoscenze disponibili in un comportamento che si adatta al singolo caso. L’evidence-based medicine non deve infatti essere interpretata come un insieme di leggi e di norme o un insieme di protocolli, ma come uno strumento che mette a disposizione del medico e del paziente l’insieme delle conoscenze disponibili di cui è necessario tener conto in quella particolare decisione clinica. Al medico non viene richiesta una semplice traduzione delle linee-guida in comportamenti ma un’operazione molto complessa di integrazione conoscitiva e culturale, che tenga in considerazione innanzitutto le preferenze del paziente, e che valuti le sue probabilità specifiche di avere una evoluzione positiva o negativa e di sviluppare un certo sintomo in relazione all’applicazione dell’una o dell’altra opzione diagnostico-terapeutica. Altrimenti la decisione clinica potrebbe essere affidata a un computer, cosa che non credo sarà possibile ancora per molto tempo.
Un’ulteriore conferma che formazione e aggiornamento avvengono sul campo…
Esattamente.
23 marzo 2005