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Quando il benessere porta iniquità

Vivere a Milano fa bene alla salute? E, soprattutto, fa bene a tutti?

L’analisi epidemiologica che abbiamo condotto depone per uno stato di salute mediamente buono della popolazione milanese, come del resto prevedevamo di osservare. I risultati dell’Atlante sui ricoveri e la mortalità a Milano riflettono, in modo fedele, quello che si sta verificando nelle grandi città dei paesi economicamente sviluppati dove il crescente livello di benessere della popolazione residente si traduce in un incremento dei livelli di salute. La ragione di questa stringente correlazione viene spiegata dal fatto che i determinanti di salute dipendono solo parzialmente dai progressi del sistema sanitario ma dipendono principalmente dalla maggiore disponibilità di risorse economiche. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha riconosciuto che il primo determinante della salute della popolazione è il suo benessere economico, sociale e culturale. La condizione del nostro Paese nella prima metà del secolo scorso, quando larga parte della popolazione viveva in uno stato di precaria sussistenza e di scarsa igiene, spiega lo stato di salute complessivamente non buono e strettamente correlato alla disponibilità di risorse economiche.

Fa bene a tutti?

Riferendosi alla correlazione tra benessere economico e salute della popolazione, possiamo dire che anche a Milano si osserva quello che accade in qualsiasi altra città sviluppata economicamente: la vita media si allunga, quote sempre più larghe di popolazione beneficiano di adeguati livelli di salute, ma la divaricazione di salute tra gli strati privilegiati e quelli sfavoriti della popolazione tende ad accentuarsi sempre di più.

Chi guadagna di meno, sta peggio in salute?

Per la maggior parte delle 54 condizioni morbose prese in esame, abbiamo potuto condurre un’analisi della correlazione fra salute e reddito. Abbiamo riscontrato un effetto del reddito nel 70 per cento delle cause di morte e nell’85 per cento delle cause di ricovero analizzate. Quindi, la disuguaglianza socio-economica della popolazione si traduce in una più alta mortalità e morbosità nelle fasce più povere: malattie come AIDS, diabete e cirrosi si concentrano soprattutto nella cintura della città di Milano, cioè in quelle zone in cui l’emarginazione è più spinta; malattie psichiatriche e cardiovascolari sono fortemente concentrate nelle classi sociali meno avvantaggiate.

Da cosa dipende la disuguaglianza?

Gli effetti sulla salute della disuguaglianza socio-economica sono ben evidenti analizzando i dati del tumore della prostata per il quale il numero dei ricoveri è maggiore nelle fasce socio-economiche più avvantaggiate mentre il numero dei decessi prevale nelle fasce più svantaggiate. Maggiore benessere si traduce in maggiore informazione e maggiore sensibilità e attenzione verso la propria salute e quindi più facile accesso alla prevenzione. Ma Milano condivide con il resto del mondo occidentale sviluppato un altro problema di disuguaglianza, questa volta tra generi: la salute delle donne è oggi più minacciata di quella degli uomini dalle patologie fumo e alcol correlate e l’accesso alle cure, ad esempio per le malattie cardiovascolari, è meno tempestivo e perciò meno efficace. In questo caso non è la stratificazione socio-economica a generare disuguaglianza ma l’essere donna.

Quindi le donne milanesi stanno meno bene in salute degli uomini?

Le donne, come ci aspettavamo, vivono più a lungo degli uomini ma, solo per certi versi, la salute delle milanesi è meno buona dei concittadini maschi. A Milano la mortalità per cancro del polmone e per patologie correlate al fumo e all’alcool si è stabilizzata nella popolazione maschile, o è addirittura in flessione, mentre nella popolazione femminile la mortalità per queste stesse condizioni morbose, pur essendo minore in termini assoluti, ha un andamento temporale in crescita.

Come si spiega questa realtà?

La spiegazione di questo fenomeno – che interessa non solo Milano ma tutto l’occidente sviluppato – va ricercata nell’inversione di tendenza tra generi rispetto all’abitudine al fumo e al consumo di bevande alcoliche che si è osservato in questi ultimi decenni e che è stato ben documentato nei paesi scandinavi dove il numero di donne fumatrici è ormai pari se non superiore al numero di uomini fumatori. Per secoli l’abitudine al fumo ha assunto uno valenza di status symbol e come tale è stata un prerogativa degli uomini che hanno pagato duramente in termini di mortalità e di morbosità. Le donne sono arrivate più tardivamente degli uomini al fumo e all’alcol come espressione di emancipazione e, in un certo qual modo, stanno ripercorrendo lo stesso “calvario” che hanno percorso gli uomini. A Milano le donne fumatrici o che hanno smesso di fumare sono il 45 per cento, in netto contrasto con i dati nazionali secondo i quali il 31 per cento delle donne fuma o ha smesso di fumare. Riprendendo il tentativo di spiegazione antropologica del fenomeno, è plausibile che le donne milanesi abbiano interpretato il benessere economico della città in cui vivono valorizzando l’abitudine al fumo come strumento dell’emancipazione.

E le conseguenze in termini di salute si fanno già vedere…

Prendendo come riferimento la popolazione femminile italiana, abbiamo riscontrato che le donne milanesi hanno un rischio più alto del 40-50 per cento di sviluppare i tumori del cavo orale e del 20-40 per cento di avere un tumore dell’esofago. Abbiamo trovato che il tumore del polmone è in calo nella popolazione maschile mentre è in netta crescita in quella femminile e il divario si fa sentire ancora di più nelle classi economicamente svantaggiate. Inoltre, abbiamo potuto vedere che tumori dell’apparato riproduttivo (ovaio e utero) e della vescica, per i quali è stata dimostrata una correlazione con l’esposizione al fumo di sigaretta, sono più frequenti nella popolazione milanese che in quella italiana. Anche le malattie psichiatriche e quelle del sistema nervoso centrale, e le malattie riconducibili all’abuso di alcol e droghe sono in aumento nella popolazione femminile.

Allora le donne milanesi si ammalano di più perché più esposte al fumo e all’alcol?

In realtà, il problema è molto più complesso e non può essere riconducibile unicamente alla maggiore esposizione ai fattori di rischio noti ma chiama in causa altri fatti. Lo dimostrano i dati relativi alle malattie cardiovascolari dove emerge che, come atteso, il numero di donne ricoverate per malattie ischemiche del cuore è circa la metà del numero di uomini ricoverati per la stessa condizione (anche se la durata dei ricoveri è maggiore per le donne). Questo vantaggio viene completamente perso quando si considera la mortalità per la stessa causa: il numero di donne che muoiono per malattie del cuore si avvicina e quasi raggiunge quello degli uomini. Sorge quindi il sospetto – e questo è confermato dall’analisi delle curve di sopravvivenza specifica – che gli uomini traggano miglior beneficio dalla diagnosi e dalle cure di queste forme morbose rispetto a quanto succede per le donne. Per una serie di ragioni, solo in parte conosciute o ipotizzabili, sembra che le donne arrivino alla diagnosi e alla terapia in un’epoca più tardiva della storia naturale della malattia rispetto agli uomini, quando cioè la malattia è avanzata e la possibilità di guarire è più compromessa. Ecco perché le donne che muoiono per malattie ischemiche non sono la metà degli uomini, come ci si aspetterebbe per analogia con il numero di ricoveri, ma sono molte di più. Sembra esserci un problema di equità di accesso ai servizi sanitari differenziale per le donne rispetto agli uomini.

Potrebbe essere la conseguenza che per molto tempo le malattie cardiovascolari sono state considerati un problema esclusivamente maschile?

Che le donne traggano minor beneficio dal servizio sanitario per quanto riguarda la malattia cardiovascolare è un’impressione condivisa da molti. Le ragioni di questa disparità di genere sono complicate e complesse e, probabilmente, di diversa natura. Credo che sia necessario dedicare maggiore attenzione all’identificazione delle diverse componenti di questa disparità per poter intervenire di conseguenza.

Basta identificare il problema e analizzarlo per passare ai fatti?

Purtroppo non vi è sempre una corrispondenza tra evidenza epidemiologica e intervento sanitario. Anche in questo passaggio subentrano diversi fattori tra cui la disponibilità delle risorse, ma anche la mancata o non sufficiente considerazione del problema dell’equità nella distribuzione delle risorse per la promozione e il recupero della salute.

Eppure il problema della disuguaglianza compare nel Piano Sanitario Nazionale.

Il fatto che le disuguaglianze siano citate nel Piano Sanitario Nazionale è certamente un elemento positivo. Tuttavia mettere il problema dell’equità nel Piano Sanitario Nazionale non costa poi molto perché vuol dire porre il problema nei suoi termini generali. Quando poi la realizzazione del Piano viene portata in periferia ci si deve misurare con la sensibilità e le convenienze del politico di turno che non ama cimentarsi con le disuguaglianze che sono difficili da risolvere nell’arco di una legislatura e potrebbero essere lette dai cittadini come un suo insuccesso. Questa è un’attitudine che purtroppo rende difficile trattare problemi come le disuguaglianze la cui soluzione richiede tempi lunghi.

Come tradurre le conoscenze in pratica?

L’intervento non è determinato tanto dalla disponibilità delle conoscenze sullo stato di salute, quanto dalle priorità fissate dalla politica. In questo fase del lavoro è fondamentale la figura del tecnico che non ha il potere di praticare le soluzioni ma ha il dovere e il potere di influenzare il politico e di accrescere le consapevolezza dei cittadini. Si tratta di un ruolo difficile che richiede strategie di comunicazione diverse e mirate. Per poter veicolare le informazioni al politico, il tecnico dovrebbe assumere l’ottica dell’interlocutore, ma non è sempre facile, perché il politico ragiona con i tempi della sua longevità sulla scena – che sono del tutto diversi dai tempi di una efficace azione sanitaria. Per questo è importante rendere le informazioni fruibili anche dai cittadini perché loro trasformino la conoscenza in pressioni sul politico che, per tutelare in qualche modo la propria sopravvivenza istituzionale, si senta “costretto” ad affrontare il problema e a cercare le soluzioni.
Chi si occupa di politica sanitaria dovrebbe partire dall’analisi dei bisogni che non sono solo sanitari anche quando si cercano soluzioni a problemi di salute. Riconoscere il bisogno anche quando questo non si traduce in domanda è la sfida per tecnici e politici.

Come vi state muovendo per fare arrivare il messaggio ai politici?

La pubblicazione dell’Atlante ha avuto qualche rilevanza sulla stampa che è servita ad aumentare i livelli di consapevolezza nella popolazione milanese. È un tentativo di spiegare ai cittadini come stanno le cose, così che possano agire di conseguenza. Abbiamo cercato di sfruttare questo modo di diffondere l’informazione al fine di mettere il politico nelle migliori condizioni per prendere iniziative fondate su fatti. E mi pare che qualcosa in questa direzione si stia muovendo, qui a Milano.

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