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È più importante cercare che trovare

La letteratura medica di qualità e le banche dati bibliografiche più affidabili − dalla Cochrane Library a Clinical evidence − sono accessibili dai medici italiani “a macchia di leopardo”, con molte disomogeneità a livello nazionale. Ritiene che questo possa costituire un problema volendo garantire un’assistenza sanitaria coerente su tutto il territorio?

Sì, ritengo che possa costituire un problema, ma non l’unico e non necessariamente il più importante. La omogeneità e la coerenza dell’assistenza sanitaria sul territorio italiano soffrono prima di tutto delle diseguaglianze di sistema. Ad esempio, le regioni in piano di rientro, costrette da vari anni al blocco del turn-over del personale, pagano lo scotto di una classe medica progressivamente invecchiata, che ha sempre meno capacità e voglia di aggiornarsi. Ovviamente, la scarsa accessibilità alle migliori fonti bibliografiche peggiora la situazione ed espone ancor più al rischio che l’informazione presentata porta a porta dalle aziende farmaceutiche diventi la forma predominante di aggiornamento.

La pubblicazione di una serie di approfondimenti sullo spreco nel settore della ricerca clinica da parte del Lancet ha fatto molto discutere. A suo giudizio e “at a glance“, può esser vero che due terzi delle risorse investite in ricerca clinica siano sprecate?

Credo di non avere elementi conoscitivi sufficienti a giudicare nel merito. Ma sono convinto che la materia vada trattata con molta cautela. Il tema prevalente, a mio avviso, è lo scarso finanziamento alla ricerca − soprattutto da parte dei sistemi pubblici che da una parte hanno limitate disponibilità economiche e dall’altra tendono a sottostimare il valore intrinseco della ricerca, volano di formazione e progresso, che parzialmente prescinde dall’ottenimento dei singoli risultati. Voglio dire che da un punto di vista culturale il percorso del “ricercare” è importante quanto, se non di più, del punto di arrivo del “trovare”. La eccessiva enfasi sulla necessità di una finalizzazione positiva è tipica delle aziende private, che ovviamente e giustamente ragionano in termini di ritorno economico degli investimenti. Ma una società che finanziasse solo ed esclusivamente ricerche “sicure” in termini di risultato e di profitto, forse risparmierebbe un po’ di denaro nel breve termine, ma temo si impoverirebbe in una ottica più ampia e nel lungo termine.

Secondo alcune voci particolarmente severe, se uno studio non porta risultati l’investimento è stato sprecato. Davvero giungere a risultati negativi equivale sempre a uno spreco di risorse?

Non sono di questa idea. Portare a termine uno studio con risultati negativi non rappresenta nella maniera più assoluta uno spreco di risorse. I risultati negativi hanno peso e rilevanza tanto quanto quelli positivi, anche se chiaramente sono meno appetibili sul piano mediatico. Un buon ricercatore, che generi ipotesi basate su premesse scientificamente solide e le verifichi con un disegno sperimentale onesto, è destinato a produrre risultati negativi nella maggior parte dei suoi studi; che avranno, però, molte volte il pregio di generare nuove ipotesi di ricerca. Il problema dello spreco delle risorse si pone, semmai, quando uno studio non porta ad alcun risultato, né positivo né negativo. In questo caso bisogna avere la capacità di analizzare le cause del fallimento e cercare di trasformare una esperienza negativa in una occasione di crescita.

Le analisi di Sir Chalmers e di Paul Glasziou sul Lancet puntano il dito anche sulla mancata pubblicazione dei risultati di numerose ricerche. Crede che “tutto” vada comunque pubblicato o, in certi casi, sia accettabile che alcuni studi di importanza secondaria possano anche essere solo resi disponibili in forma diversa dalla classica pubblicazione accademica?

Il buon senso ovviamente porta a ritenere che quello che conta è che tutto sia reso pubblico, e che la modalità non sia fondamentale. Ma il dato di fatto è che oggi è ancora vero che una pubblicazione su una importante rivista scientifica garantisce visibilità e diffusione dei risultati di una ricerca di gran lunga superiori a quanto possibile se, ad esempio, si rendono noti i risultati attraverso le banche dati dei trial clinici. In quest’ultimo caso, pur essendo i dati accessibili a tutti, la circolazione dei risultati è scarsa, e diventa rilevante solo quando una qualche forma di meta-ricerca porta alla luce quello che è (o il più delle volte non è) contenuto nelle banche dati. Quindi penso che nell’immediato si debba continuare a combattere contro il publication bias che sfavorisce la pubblicazione dei risultati negativi – non dimenticando che si tratta di una malattia che affligge non solo gli editori ma anche gli autori. Non sarebbe un buon risultato un sistema in cui i risultati positivi si pubblicano nei giornali accademici e i risultati negativi vengono relegati nelle banche dati pubbliche. In ogni caso, è giusto lavorare per migliorare la funzionalità di queste ultime e la loro fruibilità in termini di diffusione dei risultati, anche affrontando le problematiche che derivano dalla assenza di peer review e dalla non premialità, che a tutt’oggi caratterizza queste forme alternative di pubblicizzazione dei risultati.

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