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Sette mosse per non vendere l’ECM

Quale feedback ha avuto dopo la pubblicazione del suo articolo sulBritish Medical Journal: Rethinking continuing medical education?

Mi hanno scritto tante persone, dicendo che anche loro, in varie parti del mondo, stavano tentando di fare quello che io proponevo nell’articolo. Alcuni hanno detto di essersi sentiti meno soli dopo averlo letto e, in realtà, anch’io mi sono sentito meno solo nel ricevere queste lettere. Mi sono stati fatti molti commenti appropriati: ad esempio, che i “piccoli gruppi” non garantiscono la qualità della formazione, se gli obiettivi non sono chiari e la metodologia didattica non è valida; o che quella che io ho citato come FAD di buona qualità (il progetto ECCE) riesce probabilmente a fornire conoscenze teoriche valide, ma non strumenti per far crescere le capacità di ragionamento clinico e le competenze per prendere decisioni nel lavoro quotidiano.

Le intenzioni di cambiare in meglio il sistema dell’ECM, a sentire lA.GE.NA.S. ci sono, anzi c’erano già l’estate scorsa. Secondo lei quanto ci metterà la macchina del sistema ECM a mettere in pratica i buoni progetti?

Non so se alle buone intenzioni seguiranno dei fatti concreti. So che dal 1 Agosto del 2007 sembra tutto fermo (anche da prima del cambio di governo). Non sono state pubblicate le disposizioni per regolamentare l’attività dei provider, con la conseguenza che continuiamo ad essere inondati dalle più disparate agenzie di viaggi e turismo, che con leggerezza passano dal sito del Ministero a quello degli alberghi di lusso e che accreditano, raccolgono contemporaneamente sponsorizzazioni e dichiarazioni di assenza di conflitto di interessi, scrivono report conclusivi di corsi e gestiscono tutto l’iter di un evento formativo senza capire nulla di formazione.

Perché si permette che ciò avvenga?

Sembravano buone intenzioni quelle che recitavano che la metà dei crediti dovessero essere acquisiti partecipando a progetti aziendali e regionali di miglioramento della qualità: ma nessuno ha controllato che ciò avvenisse e molti corsi continuano ad avere argomenti teorici, adatti a dotte letture serali e casalinghe.
Si parlava di nuovi obiettivi nazionali, che non si sono mai visti. Si accennava, non senza una punta di imbarazzo, a misure che “incoraggiassero” i professionisti a prendersi cura della propria formazione; finora però non vi è stata ombra né di sanzioni, né di incentivi. Si intendeva promuovere la formazione sul campo, quella che forse serve di più, ma nella maggioranza delle regioni del sud non esistono crediti regionali e gli assessorati alla sanità sono latitanti sulle tematiche della formazione (presi come sono dal problemi finanziari del rientro).

Chi dovrebbe stimolarli?

Si proponevano dossier formativi, individuali e di gruppo, stimolati dai responsabili delle unità operative o dei dipartimenti, per calare la formazione continua nelle attività quotidiane: tentate di raccogliere informazioni su quanti dirigenti hanno promosso tali dossier e resterete molto delusi. Si parlava di gruppi di esperti reali, che affiancassero la Commissione Nazionale ECM per consolidare obiettivi, metodologie di apprendimento degli adulti e metodi di valutazione del progetto Italiano di ECM. Per quel poco che so di movimenti nelle “alte sfere”, quelle 4-5 persone in Italia che capiscono davvero di formazione continua non sono ancora state prese in considerazione, mentre, senza scandalizzarsi più di tanto, si può osservare che la composizione della Commissione Nazionale ECM non rispecchi, con qualche debita eccezione, la capacità dei componenti di dare un proprio contributo originale all’organizzazione dell’ECM stessa, quanto la loro appartenenza ad ordini, collegi e varie sigle di diversa tipologia.

Ma dopo il caso AIFA cè ancora qualcuno che si meraviglia di qualcosa nella Sanità italiana?

Insomma, il documento del 1 agosto 2007 sembrava scritto da persone competenti e desiderose di cambiare in meglio: se queste persone esistono ancora e non sono ancora state ritenute scomode come Nello Martini, sarei felice di offrire loro tutto il mio sostegno (anche se non appartengo ad ordini, collegi e sigle varie).

Se tutte le aziende sanitarie utilizzassero per intero l’1% della spesa in bilancio per le attività formative, ritiene che tale risorsa riuscirebbe a coprire il bisogno e lofferta di formazione accreditata?

La risposta è sì, se diamo la priorità alla formazione sul campo, agli audit, alla supervisione sul lavoro, ad alcune tipologie sostenibili di e-learning. La risposta è sì, se per aggiornarci utilizziamo l’ospedale, il reparto, il laboratorio, la biblioteca dell’ospedale o la palestra della scuola di quartiere.
Non riusciamo a farcela con l’1% se dobbiamo pagare viaggi, soggiorni, cene, buffet, piccoli regali per gli ospiti, il fitto di grandi sale per convegni.
Personalmente, non sono d’accordo con il sistema dei crediti, perché ha messo in moto una corsa quasi consumistica, in cui la gente si preoccupa del numero di punti (“non si sa mai, potrei in futuro perdere soldi o non avanzare di carriera”), una mercificazione di un percorso che dovrebbe fondarsi su altri valori.
Le aziende sanitarie dovrebbero offrire la formazione ai propri professionisti come un’opportunità per far meglio e dovrebbero indicare con chiarezza gli obiettivi da raggiungere. Ogni anno i professionisti dovrebbero dimostrare di aver raggiunto gli obiettivi richiesti, in maniera più o meno completa e soddisfacente; come dice qualcuno, di tanto in tanto, voglio esser certo che il mio chirurgo sappia operare bene e che il mio pediatra prescriva solo i farmaci per i quali esistono evidenze scientifiche.

Cosa manca?

Per fare ciò, non serve un sistema sanitario che prescrive 50 crediti l’anno, senza esercitare alcun controllo sulla qualità del processo formativo. Serve piuttosto un sistema sanitario attento ai bisogni di salute dei cittadini, alla qualità delle cure, alla riduzione degli sprechi in diagnostica e degli interventi terapeutici inutili. Un sistema sanitario che, se pur rispettoso del lavoro e del contributo che le aziende farmaceutiche possono fornire alla salute dell’uomo, non permetta che, nelle attività di formazione continua, vi sia un conflitto di interessi tanto palese, da poter screditare agli occhi dei cittadini i professionisti che si prendono cura della loro salute. Un sistema sanitario che abbia consapevolezza e competenza di come si progetta, si esegue e si valuta la formazione continua dei propri operatori.

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