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Tra biblioteche l’unione fa la forza
Oltre 23 mila riviste medico-scientifiche; più di 3500 articoli pubblicati ogni giorno. Ma il medico legge?
Il medico legge ma, probabilmente, legge di più il medico che fa anche ricerca. In ogni caso, si dedica per lo più a una lettura mirata nel campo della propria disciplina ed è tendenzialmente abitudinario rispetto alle riviste di riferimento del proprio settore. A meno che, qualcuno non lo induca ad una sorta di “altro bisogno”, facendogli conoscere altre fonti, comunque preventivamente selezionate (costi-benefici) da qualcuno del mestiere (il documentalista). Il problema, infatti, è proprio districarsi e orientarsi in questo fenomeno di overload di informazioni.
Il costo degli abbonamenti ai periodici aumenta ogni anno in misura maggiore dell’inflazione: c’è modo di trasformare questa spesa in un investimento? (corsi, sensibilizzazione, ecc.)
Una via possibile e sperimentata in questi anni per ottimizzare le risorse e far fronte ai costi elevati è quella della cooperazione. Si è iniziato negli anni ’90 con progetti empirici e basati sul volontariato. Via via si sono sviluppati progetti sempre più strutturati, tutelando il bisogno informativo, fino al punto che Regioni e Ministeri hanno intrapreso questa strada, finanziando gli ormai noti servizi SBBL (Servizio Bibliotecario Biomedico Lombardo) e BIBLIOSAN (le biblioteche in rete degli enti di ricerca biomedici italiani). Va da sé che queste soluzioni si sono affermate e si sono potute realizzare grazie allo sviluppo della tecnologia nel corso di questo ultimo decennio .
E in un’ottica di trasformazione della “spesa” in un “investimento”, se la biblioteca in questi anni è cambiata, deve proseguire il suo percorso e rinnovarsi ulteriormente.
Come?
Deve aprirsi fisicamente, perché in biblioteca non si sta solo in silenzio! Le nuove biblioteche sono aule informatizzate, in cui, ad esempio, l’accesso ai personal computer e alla rete permetterebbe di utilizzarle per le esercitazione degli studenti, come supporto all’attività di formazione (ECM). Inoltre, possono essere fonte di materiale divulgativo qualificato, oltre che sede e punto di incontro per le associazioni dei pazienti. E perché no, diventare un vero e proprio luogo di lavoro per medici e ricercatori, dove scrivere articoli, progetti di ricerca, ecc.
Diverse biblioteche ospedaliere lamentano la distanza tra un’editoria (quasi) tutta in lingua inglese e il personale sanitario molto spesso incapace di comprendere le lingue straniere: le biblioteche degli istituti di ricerca vivono anche loro questo problema?
Negli IRCCS e nelle Università questo aspetto linguistico è sentito molto meno in quanto il medico/ricercatore per sua natura ha un’educazione scientificamente più cosmopolita e mondana. In genere, ha passato periodi anche all’estero, partecipa a progetti di ricerca internazionali, fa parte di board di riviste, partecipa a congressi, scrive articoli e così via. Comunque, il linguaggio scientifico in inglese, dopo un po’ di allenamento, non è così difficile da comprendere (altra cosa è parlarlo!). Il problema rimane, in modo più accentuato, anche in queste istituzioni, per il personale infermieristico e tecnico. Il cui ruolo è decisamente cambiato all’interno dello staff. Per loro si stanno comunque cercando e trovando soluzioni.
Ritiene più conveniente, per una biblioteca specialistica, l’acquisto di “pacchetti” di periodici dallo stesso editore o una selezione mirata delle riviste sulla base dei dati di consultazione degli utenti?
Da un punto di vista culturale, se lo stesso editore propone un pacchetto “in tema”, ma più variegato, è possibile che sia più stimolante e apra la curiosità alla verifica di altre fonti. Viceversa, la scelta di un pool di riviste, perché più consultate, è una soluzione meno dispersiva, forse anche economicamente, ma più riduttiva sul piano formativo. Facendo i dovuti conti, in generale credo che non dobbiamo rinunciare a proporre la qualità e, perché no, magari qualcosa di diverso.
Riviste ad accesso gratuito: il personale del vostro Istituto è consapevole della dialettica tra Open Access e editoria tradizionale? I periodici della PLOS e BioMed Central sono conosciuti e consultati? Sono utilizzati dal personale per pubblicare le proprie ricerche?
È un tema decisamente in evoluzione e in discussione non solo tra il personale clinico e di ricerca, ma anche tra gli esperti del settore dell’informazione, quali appunto i documentalisti; infatti, dai medesimi e dalle associazioni di riferimento, vengono organizzati diversi convegni e dibattiti in proposito. L’Open Access è conosciuto ed anche utilizzato, ma non ancora abbastanza. E, a parte un problema di costi, lo sforzo di pubblicare viene appagato dal vedere il proprio articolo su una rivista con impact factor, anche perché questo viene rendicontato in termini di produzione scientifica, aspetto non indifferente a fini istituzionali.
Attualmente quello dell’impact factor è un limite che possono incontrare le riviste Open Access, e senza voler giudicare sulla bontà del piano scientifico, anche a causa della giovane età anagrafica di alcune testate.
Che ruolo giocano (se ancora lo giocano) le riviste in lingua italiana? Come stanno reagendo gli editori “locali” alla mondializzazione della comunicazione scientifica?
É da ritenersi importante un’editoria nazionale in lingua italiana che dia voce e visibilità a contenuti di qualità e accessibili soprattutto, ma comunque non solo, a certe categorie professionali che hanno difficoltà nella comprensione della lingua inglese. Cito come esempi Il Giornale Italiano dell’Aids, Epidemiologia e Prevenzione, Bioetica, Confinia Cephalalgica, nel settore della documentazione Biblioteche Oggi, e, non ultimo, anche le riviste curate dalle stesse istituzioni e dagli ospedali. Tutte esperienze editoriali di grande rispetto e certificate, che hanno alle spalle editor-in-chief e redazioni che non devono sentirsi in soggezione rispetto a quelle anglo-americane. È sicuramente uno sforzo sia in termini di tempo sia economico, ma anche un’importante testimonianza di una produzione e di un impegno che diffondono conoscenza, creando dibattiti e confronti.
Ritiene esista uno spazio per gli editori nazionali?
È un dato di fatto che ci sia un riconoscimento ad ampio respiro nei confronti della produzione nazionale in quanto, anche le riviste in lingua italiana sono selezionate e indicizzate dai data base di letteratura internazionale.
Nei paesi anglosassoni, il documentalista svolge un ruolo attivo di supporto della ricerca di conoscenze per migliorare la qualità dell’assistenza da parte dello staff sanitario; le precedenti interviste hanno evidenziato delle resistenze nei medici ad affidarsi ad una ricerca delle evidenze svolta per loro (o in collaborazione) da bibliotecari esperti: qual è il suo parere al riguardo?
Questo è vero ed è stato faticoso in questi anni farsi riconoscere, soprattutto per la difficoltà a metabolizzare concetti come collaborazione, interdisciplinarità, integrazione delle professioni e delle competenze. Del resto in Italia anche chi fa il nostro mestiere ha dovuto un po’ sperimentarsi. Questa figura, nata nell’azienda farmaceutica, richiedeva una laurea scientifica (biologia, farmacia, ecc.), poi si è aperta anche a lauree come filosofia, lettere, lingue. Di conseguenza, mettere insieme medici e letterati, in una società ormai purtroppo troppo parcellizzata, non è stata cosa facile per nessuno! Ma abbiamo perseverato tutti, lavorando con passione e permettendo a questo “rapporto di forza” di stemperarsi.
In che modo?
Grazie anche all’evoluzione del pensiero, che ha favorito un’apertura e un’integrazione delle diverse conoscenze e dei diversi approcci. Per esempio, oggi si parla (e si studia) di neurofilosofia, di neurofilosofia e “brain imaging”, di coscienza tra mente e cervello. Inoltre la figura del documentalista è coinvolta nei progetti di ricerca, nell’attività dei comitati etici, nei corsi di formazione. Lo staff sanitario, dunque, si fida di più e si affida di più a questa figura professionale, che ha saputo dimostrare competenza, apprezzandone e comprendendone il valore aggiunto.