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Alzheimer: stiamo sbagliando tutto?

Per trovare una cura alla malattia di Alzheimer che visto l’invecchiamento della popolazione minaccia di trasformare i prossimi decenni in un incubo sociale e sanitario occorre cambiare radicalmente prospettiva? Da decenni scienziati e aziende farmaceutiche si concentrano sulla riduzione delle placche amiloidi, ma se il target da colpire fosse invece il processo infiammatorio che precede la loro formazione? È la tesi forse un po’ eretica che una importante ricercatrice avanza dalla pagine della rivista The Scientist.

W. Sue T. Griffin del Donald W. Reynolds Department of Geriatrics dell’University of Arkansas si occupa di Alzheimer da circa trent’anni: “ Cominciò tutto per caso nel 1983 quando mi capitò di seguire un seminario di Roger Rosenberg all’University of Texas Southwestern Medical School. A quei tempi gli immunologi ritenevano che il sistema nervoso centrale e il sistema immunitario fossero completamente indipendenti uno dall’altro, ma le mie osservazioni sullo sviluppo embrionale del cervello dei topi mi avevano convinto che invece ci fosse una connessione. Così, quando Rosenberg mostrò sezioni del tessuto cerebrale di pazienti con Alzheimer che mostravano cellule simili a quelle immunitarie disseminate tra le placche amiloidi, iniziai a chiedermi perché nessuno avesse indagato sul ruolo dei processi infiammatori nella malattia di Alzheimer: forse il deterioramento neuronale era causato dall’overespressione della citochina interleuchina 1 (IL-1) come accade nell’artrite con le giunture”.

La Griffin iniziò a testare in laboratorio la sua ipotesi, trovando le prime conferme: i livelli di IL-1 e di S100 (un’altra importante citochina) nei cervelli di pazienti affetti da Alzheimer si dimostrarono effettivamente molto più elevati del normale. “ La mia ipotesi era che la malattia progredisse attraverso la propagazione di danni neuronali indotti dall’attivazione delle cellule gliali e la sintesi di citochine. Studiando i pazienti con sindrome di Down – che sviluppano un quadro clinico e patologico simile a quello dei malati di Alzheimer appena entrano nella mezza età – abbiamo scoperto che l’overespressione di IL-1 e S100 parte già nei neonati, molti anni prima dell’insorgenza di placche amiloidi, supportando l’idea che il rilascio di citochine sia il risultato di stress neuronale, nel caso dei bambini Down causato dalla produzione tripla (tipica della loro malformazione genetica) della proteina precursore della β-amiloide (βAAP). Infatti qualche anno dopo Steve Barger dell’University of Arkansas College of Medicine ha dimostrato che lo stress neuronale è associato all’aumento della sintesi di un frammento della βAAP noto come sAPP, che induce appunto l’attivazione delle cellule gliali e il rilascio di IL-1”.

Il mondo scientifico però mostrò molto poco interesse, se non aperta avversione, per le teorie della Griffin e del suo team di ricercatori : i suoi lavori del 1984 furono pubblicati solo nel 1989 per interessamento di Dmitry Goldgaber, che ai National Institutes of Health stava mappando proprio in quegli anni il gene per la βAAP. “Tornammo al lavoro, e quando George Siggins dello Scripps Research Institute dimostrò che livelli elevati di IL-1 riducono l’apprendimento e le performance di neurotrasmissione formulammo l’ipotesi operativa che IL-1 contribuisca ai deficit di memoria tipici della malattia di Alzheimer abbattendo i livelli del neurotrasmettitore acetilcolina. Prendiamo in considerazione alcuni fattori di rischio per l’Alzheimer: l’età avanzata, i traumi cranici, l’epilessia, l’infezione da HIV. Tutte condizioni caratterizzate da aumento della sintesi di IL-1 e danno neuronale”.

Qual è il modello patologico proposto da W. Sue T. Griffin? L’attivazione cronica delle cellule gliali (data da predisposizione genetica, lesioni ripetute o infezioni, usura del tempo) e di processi infiammatori porta al danno neuronale, alla produzione di βAAP, a ulteriore danno neuronale e alla formazione e all’accumulo di placche amiloidi. “L’infiammazione è un sospetto perfetto e un potenziale target terapeutico, eppure tutti sembrano ignorarlo”, spiega la ricercatrice. “Numerosi studi hanno dimostrato che chi assume continuamente farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS, o NSAIDs) per altre patologie presenta una riduzione del rischio di sviluppare Alzheimer stimabile in almeno la metà, e che il naprossene se assunto in corrispondenza dei primissimi sintomi della patologia e per più di due anni ha effetti protettivi”.

Fonte: Griffin WST. What causes Alzheimer’s? The Scientist 01/09/2011.

david frati

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