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Information Technology: risorsa o problema?

• Nonostante molte testate medico-scientifiche stiano puntando al 100% sull’on-line implementando una serie di funzioni interattive.

• Nonostante numerosissimi opinion leader abbiano dato vita a seguitissimi blog contribuendo a umanizzare la professione.

• Nonostante molte istituzioni mediche (organizzazioni sanitarie, riviste mediche, società scientifiche, operatori sanitari) abbiano aperto dei “canali” su YouTube attraverso i quali diffondono materiale di tipo (in)formativo se non addirittura veri e propri tutorial.

• Nonostante l’area dell’ECM e della formazione a distanza stia crescendo sensibilmente.

• Nonostante un rapporto del Cambridge Strategic Management Group (CSMG), un’azienda di consulting strategico, abbia appena stimato che il mercato della tecnologia legata alla comunicazione sanitaria via smartphone, palmari e dispositivi di Telemedicina crescerà del 25% all’anno da qui al 2014, raggiungendo in quella data un giro d’affari nei soli Usa di 4,6 miliardi di dollari.

• Nonostante la frequenza e il modo in cui i medici tendono a utilizzare i social network sia considerata un’opportunità preziosa da parte delle aziende farmaceutiche.

• Nonostante siti Internet come Ozmosis, SocialMD, Sermo e DoctorNetworking e i motori di ricerca siano frequentati quotidianamente da centinaia di migliaia di medici e professionisti della Salute e il Web sia ormai parte integrante della professione medica e ne influenzi le tendenze ogni giorno (qualche dato? Il 58% dei medici usa Internet per scopi professionali più di una volta al giorno; l’80% verifica le informazioni riportate dai suoi pazienti on-line; il 73% considera Internet una parte essenziale della pratica clinica; il 78% ritiene che Internet lo aiuti a svolgere meglio il suo lavoro; il 69% ha fiducia nelle informazioni raccolte sul Web).

• Nonostante il 74% del personale infermieristico statunitense consigli di visitare siti Internet dedicati alla salute ai pazienti incontrati in ambulatorio, come rivela un sondaggio targato Manhattan Research.

• Nonostante più di metà della popolazione statunitense abbia utilizzato nel 2008-2009 il Web per cercare informazioni di natura sanitaria, come rivela un Rapporto diffuso dal National Center for Health Statistics.

• Nonostante ogni giorno milioni di medici utilizzino applicazioni per smartphone durante la pratica clinica.

• Nonostante tool come PracticeFusion – che sulla falsariga di Google Apps fornisce lo spazio gratuito per mettere on-line e gestire le cartelle cliniche e i referti diagnostici dei pazienti in ambiente sicuro e solo negli Usa è utilizzato da 18.000 medici di Medicina Generale – oppure PharmaSURVEYOR, un’applicazione web che permette di monitorare le interazioni tra i farmaci che si intendono prescrivere ai pazienti e di creare scenari terapeutici virtuali per verificare i trattamenti più efficaci, forniscano ai medici di oggi strumenti davvero preziosi per operare al meglio.

• Nonostante i medici che utilizzano le prescrizioni elettroniche taglino in modo evidentissimo (dal 42,5% al 6,6% ) il tasso di errori prescrittivi, come ha rivelato uno studio pubblicato dal Journal of General Internal Medicine.

• Nonostante per garantire ai cittadini-pazienti la continuità assistenziale l’Information Technology sia ritenuta uno strumento essenziale che già sta dando concreti risultati.

• Nonostante secondo molti autorevoli addetti ai lavori l’informatizzazione e la Rete cambino l’atteggiamento del paziente e la sua percezione del MMG, rendendo persino le strutture ospedaliere luoghi più friendly.

• Nonostante strumenti come OpenNotes consentano ai pazienti di consultare da casa gli appunti sul loro caso presi dal medico di base che li ha visitati e li ha in cura migliorando ed espandendo il dialogo tra medici e pazienti.

• Nonostante non esista oggi alcuna possibilità di trasformare radicalmente un Sistema sanitario senza ricorrere a un massiccio utilizzo di soluzioni di Information Technology, come ha affermato in una recente intervista al Wall Street Journal il National Coordinator for Health IT Usa David Blumenthal, testa d’uovo della riforma sanitaria di Barack Obama.

Le resistenze all’introduzione dell’Information Technology (IT) in Sanità sono ancora molto forti – e arrivano a volte da dove non te le aspetti.

Un sondaggio commissionato da Xerox Corporation su un campione di 2180 persone fa riflettere: il 26% afferma che a guadagnare di meno dal passaggio all’Information Technology in Sanità, dalle cartelle cliniche elettroniche, dall’informatizzazione delle procedure cliniche e amministrative saranno i pazienti, il 9% pensa che a rimetterci sarà il Governo federale, il 3% punta il dito sulla categoria degli operatori sanitari, il 3% su quella degli assicuratori e il 3% sulle aziende informatiche (?!), mentre il 26% del campione afferma che a guadagnarci di meno saranno tutte le categorie sopracitate allo stesso modo. Inoltre, soltanto il 39% del campione ritiene necessario il passaggio all’IT in Sanità. Probabilmente, viene da pensare, si è fatto ancora troppo poco per informare il pubblico sull’importanza della rivoluzione tecnologica nel campo della salute.

Anche la tradizionale reticenza dei medici e dei ricercatori a condividere i dati e i risultati in nome della titolarità delle ricerche e della competizione professionale va superata. Lo dimostrano una serie di esperienze-pilota di database medici condivisi. Si va da Sage Commons, un progetto open source che permette di condividere dati epidemiologici e che cerca di coinvolgere aziende farmaceutiche, centri accademici e associazioni di pazienti nella ricerca al finanziamento federale Usa di 700 milioni di dollari solo nel 2009 per sviluppare lo scambio di dati sanitari a livello regionale e statale, che secondo autorevoli esperti porterà entro pochi anni a un network di database interattivi su scala federale. Ma numerosi operatori di Health Information Technology, interpellati dal prestigioso quotidiano economico americano Wall Street Journal, sono quasi unanimi: per massimizzare l’utilità dell’adozione di database condivisi e cartelle cliniche elettroniche occorre
– assicurarsi che al centro ci sia l’assistenza sanitaria vera e propria e non procedure amministrative
– adottare sistemi IT che rendano possibile la customizzazione
– passare a sistemi di HIT con gradualità e non di colpo.

Inoltre, man mano che gli operatori sanitari diventano più avvezzi alle applicazioni digitali e la pratica clinica si arricchisce di strumenti IT, il problema di fornire le ‘istruzioni per l’uso’ agli studenti e agli specializzandi in Medicina si fa sempre più urgente. È responsabilità degli educatori innanzitutto familiarizzare loro stessi con gli strumenti e le modalità IT per individuare non solo i vantaggi ma anche le potenziali negatività legate all’utilizzo delle tecnologie digitali nella pratica clinica. In assenza di regole stabilite e di educazione al rischio infatti l’uso errato di strumenti IT e la mancanza di appropriatezza nell’accesso da parte del pubblico possono rappresentare un problema con effetti anche importanti. I ricercatori dell’University of Chicago Pritzker School of Medicine coordinati da Jeanne M. Farnan hanno individuato però alcune strategie future: “Favorire la familiarità degli studenti universitari con gli strumenti digitali e il Web è il primo step, logicamente, ma occorre anche uno sforzo di educazione e monitoraggio dei contenuti di qualità non professionale con i quali gli studenti potrebbero venire a contatto, controllare che venga rispettata una policy prudente nel postare su blog o su social network e infine veicolare un messaggio di buonsenso che preservi un’immagine di ‘professionalità digitale’ e una buona reputazione on-line”, spiega la Farnan. “Poiché la vita digitale e quella professionale dei medici non possono non intersecarsi, occorre quindi che i giovani adottino prudenza e razionalità nel loro approcciarsi alle nuove forme di comunicazione e non diffondano materiale riconducibile a istituzioni sanitarie ed accademiche senza il consenso preventivo delle stesse”. Fatto questo, occorre definire i contorni del professionismo medico del 21esimo secolo, che vede uno sviluppo inatteso delle dinamiche medico-paziente grazie al Web 2.0, ma che può vedere grazie a questo anche minacciato in profondità il rispetto per la privacy di chi soffre.

Un capitolo a parte meritano le distorsioni che l’utilizzo del Web inevitabilmente porta con sé. Pazienti derisi con linguaggio profano e discriminatorio, casi clinici mostrati con scherno e disprezzo e persino foto raffiguranti pazienti ricoverati in ospedale in stato di ebbrezza o immagini a sfondo sessuale. Una ricerca pubblicata sul Journal of the American Medical Association mostra come la professionalità e la deontologia medica siano ancora due termini alquanto sconosciuti al mondo del web 2.0, luogo in cui i giovani medici, specialmente studenti e specializzandi, tendono a infrangere abitualmente la privacy e il rispetto per i loro pazienti. Dopo aver inserito un particolare dispositivo elettronico in 78 Facoltà mediche statunitensi, un team di ricercatori della George Washington University di Washington ha passato al vaglio i messaggi postati nei social network all’interno delle strutture mediche universitarie e i loro risultati sono stati alquanto sconcertanti. Il 60% dei medici ha mostrato infatti inserire contenuti poco “uniformi” all’etica professionale, il 19% ha violato la privacy dei malati, il 48% ha mostrato un linguaggio altamente discriminatorio contro i pazienti e nel 38% dei casi sono stati inseriti sul web contenuti a sfondo sessuale aventi come sfondo la corsia ospedaliera. “Mentre alcuni casi potrebbero risolversi con un avviso informale, altri potrebbero giustificare una radiazione del medico o dello studente dalla scuola di medicina”, ha dichiarato l’autrice della ricerca Katherine Chretien, secondo la quale è necessario insegnare a questi giovani professionisti un maggior rispetto per la figura del paziente anche all’interno degli ambienti virtuali. Dalla ricerca è emerso infatti che molti medici e studenti risultano totalmente inconsapevoli dei loro errori commessi via internet. Come se il mondo dei social network fosse una luogo completamente estraneo e disgiunto dal mondo reale. Un luogo in cui il medico è libero di togliersi il camice e infrangere le basi etiche della sua stessa professione. Per non parlare del fatto che i giovani medici che utilizzano Facebook con entusiasmo, tendono a sottovalutare l’impatto che la rivelazione di alcuni particolari sulla loro vita privata può avere sul rapporto con i loro pazienti. Lo ha sottolineato uno studio pubblicato dalla rivista Medical Education. I ricercatori neozelandesi dell’University of Otago coordinati da Joanna MacDonald hanno analizzato il comportamento su Facebook di 220 medici laureati tra il 2006 e il 2007, valutando soprattutto il loro utilizzo delle opzioni sulla privacy e la natura del materiale proposto sulle loro ‘bacheche’. È emerso che solo 138 medici del campione (63%) avevano attivato il filtro che limita agli ‘amici’ l’accesso alle informazioni pubblicate nel profilo di Facebook, mentre gli 82 che proponevano materiali senza alcun filtro per la privacy rivelavano tranquillamente il loro orientamento sessuale (37%), il loro orientamento religioso (16%), il loro status sentimentale (43%) oppure avevano pubblicato foto mentre bevevano alcol (46%) o mentre erano in stato di evidente alterazione (10%). Commenta la MacDonald: “Un quarto dei giovani medici del nostro campione non usano filtri per la privacy, rendendo informazioni private accessibili al pubblico: queste informazioni, anche quando riguardano comportamenti legittimi e salutari, possono disturbare i pazienti oppure alterare la natura professionale del rapporto medico-paziente o peggio rovinare la reputazione del medico (per esempio appartenere a ‘gruppi’ come “Perverts United”)”. Educatori e autorità regolatorie devono quindi – secondo i ricercatori – provvedere a spingere i giovani medici a discernere meglio tra pubblico e privato.

Twitter e i social network poi possono contribuire a diffondere la disinformazione sui temi della salute. L’allarme arriva da uno studio pubblicato dall’American Journal of Infection Control. I ricercatori della Columbia University coordinati da Daniel Scanfeld hanno analizzato 52153 tweet contenenti la parola “antibiotici” pubblicati su Twitter tra marzo e luglio 2009. È emerso che i messaggi del tutto errati la fanno da padroni: la parola “antibiotici” era associata a quella “influenza” in 345 tweets che sono arrivati a complessivamente 172.571 follower; la parola “antibiotici” era associata a quella “raffreddore” in 302 tweets che hanno raggiunto la bellezza di 850.375 follower. L’occasione buona per rigettare Twitter e i social network in toto? Niente affatto. Spiega Scanfeld: “Gli operatori sanitari dovrebbero avere familiarità con gli strumenti del social networking, perché sono un formidabile mezzo di diffusione di informazioni sanitarie e vengono già usati intensamente a questo scopo. Inoltre si potrebbero usare i social network per raccogliere valori diagnostici e dati epidemiologici oppure identificare abusi o equivoci sui farmaci”.

david frati

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