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Miracoli e tumori
Guarigioni miracolose: un tema spigoloso, da prendere con le molle. Le regressioni tumorali spontanee sono tra gli eventi più rari e misteriosi in medicina, con solo alcune centinaia di casi in letteratura ben documentati, più spesso segnalate nel melanoma e nel tumore del rene. Secondo Jedd D. Wolchok, oncologo al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center, una remissione spontanea si deve “o a un intervento divino o al sistema immunitario”. Ed è più probabile che si debbano al secondo.
Se ne parla anche nel bel film di Aki Kaurismäki in questi giorni sugli schermi, Miracolo a Le Havre. Una storia qualunque che può capitare a chiunque in uno dei mille posti nel mondo dove vivono e si danno da fare nell’anonimato persone qualsiasi ed immigrati: è la base del film del regista finlandese, girato con la cinepresa che fu di Ingmar Bergman e non in digitale (“il cinema è luce, non elettricità”, secondo Kaurismäki) e splendidamente fotografato da Timo Salminen. Ambientato nella cittadina normanna del titolo, già scena di altri film famosi come Il porto delle nebbie, vi vivono l’anziano lustrascarpe Marcel Marx (André Wilms), sua moglie Arletty (Kati Outien, “musa” di tanti film del finlandese) e la loro cagna Laika. Vivrebbero un’esistenza modesta ma tutto sommato tranquilla: Marcel non sa però che sua moglie cova una malattia grave.
Arletty dev’essere ricoverata in ospedale a causa dell’aggravarsi di un tumore mentre Marcel trova, aiuta ed ospita in casa un piccolo immigrato africano del Gabon, Idrissa (Blondin Miguel), in fuga dalla polizia e che vorrebbe ricongiungersi alla madre rifugiata a Londra. Mentre la moglie si sottopone alle cure con speranza e pudore, Marcel cerca in ogni modo di aiutare il ragazzino ad attraversare la Manica, riuscendo a mettere insieme i 3.000 euro per il viaggio, anche grazie all’aiuto dei vicini, disponibili ad una solidarietà senza riserve.
Il miracolo del titolo sembra avvenire il giorno in cui Marcel va in ospedale per riportare a casa Arletty: la donna, a cui i medici avevano dato poche speranze di sopravvivere al tumore, è inspiegabilmente guarita.
Di una persona molto malata e guarita, ogni tanto si dice: è stato un miracolo. Si esprime così anche il medico con Arletty, appena allettata. Ma nel film di Kaurismäki il miracolo è un altro: ha del miracoloso che resistano la solidarietà e l’amicizia in un mondo dal quale questi sentimenti sembrano espunti. Sono loro, questi sentimenti, a far da cornice ed in fondo a rendere plausibili gli accadimenti fantastici del film, anche i più incomprensibili. Senza alcuna retorica, e con una lievità che ricorda la stagione di De Sica e Zavattini: non è in azione la Forza dell’Amore, ma i concreti e modesti affetti quotidiani promossi dall’empatia della gente qualunque che continua magari a farsi del male fumando e bevendo (nel film, quasi tutti hanno una sigaretta accesa in mano), ma che è disponibile ad aiutarsi senza un motivo altro che non sia la compassione.
Gente normale che da sempre esiste, perfino deconnotabile nello spazio e nel tempo: nel film passano ogni tanto automobili degli anni Sessanta, avventori di altre epoche bevono liquori desueti nei bar, mentre la voce della Piaf è diffusa da ormai improbabili jukebox.
Il cancro affligge il nostro modo di vivere, ma – come dice il medico oncologo ad Arletty – “c’è sempre la possibilità di un miracolo”. Anche fuori dalla malattia, ma che tocca e riguarda comunque anche quest’ultima, poiché ne va della ricca e complessa alchimia dei rapporti umani.