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Natalità in calo. I figli, un “bene pubblico” da tutelare

Secondo gli ultimi dati ISTAT, nel 2019 l’Italia ha raggiunto per il settimo anno consecutivo un nuovo record negativo per quanto riguarda la natalità. In altri termini, da sette anni a questa parte, ogni anno vi sono più culle vuote dell’anno precedente. Inoltre, il numero medio di figli per ciascuna donna di cittadinanza italiana nel 2019 è il più basso di sempre: 1,18. Mentre, per quanto riguarda l’età media in cui le donne diventano madri, essa si è alzata di 3 anni rispetto al 1995: 31,3 anni.

Al problema della denatalità è dedicata la corposa intervista a Maurizio Franzini, professore ordinario di politica economica presso la Sapienza università di Roma e direttore del Menabò di Etica e Economia, pubblicata sull’ultimo numero di Forward  appena uscito.

Secondo Franzini, i primi segnali del problema risalgono agli anni Settanta, quando dopo il picco del tasso di fecondità di 2,70 registrato nel 1964 si è passati a una graduale e costante diminuzione delle nascite che nei prossimi cinquant′anni potrebbe tradursi in una riduzione complessiva della popolazione italiana di oltre 7 milioni. Di tutto questo, al momento non siamo ancora pienamente consapevoli perché, essendo parallelamente aumentata la speranza di vita alla nascita, la popolazione nel complesso resta numericamente stabile dal momento che mediamente le persone sopravvivono più a lungo.

Nel panorama europeo, il parziale contenimento del calo delle nascite dovuto all’apporto dell’immigrazione “sta lentamente perdendo la sua efficacia per la tendenza degli stranieri a una omogenizzazione sociale che li porta ad assumere le stesse abitudini del paese in cui si vive: nel 2018 il tasso di fecondità per le donne immigrate è sceso a 1,94, quando nel 2008 era di 2,65”.

Per di più la pandemia potrebbe ulteriormente accentuare la divaricazione tra un′ulteriore diminuzione della natalità nelle paesi più ricchi e un suo aumento in quelli più poveri.  Nei paesi ricchi ad esempio, spiega Franzini, molti trattamenti per la fertilità sono stati interrotti e molte coppie stanno rimandando la maternità data l’incertezza del periodo, quindi, come è già avvenuto in passato con altre pandemie, potrebbe verificarsi una netta riduzione del numero delle nascite. Se a ciò si unisce la crisi economica che ne conseguirà,  è facile capire come la natalità subirà un duro colpo. Sul versante opposto, quello dei paesi poveri, l′esaurimento delle scorte e l′interruzione delle catene di approvvigionamento di pillole contraccettive e preservativi penalizzeranno maggiormente le persone con meno risorse economiche. Per di più,  molti migranti ritorneranno nei loro Paesi sempre a causa della pandemia e questo farà aumentare le occasioni per le donne di rimanere incinte.

Concentrandosi sui problemi a breve termine, prosegue Franzini, “nel momento in cui la natalità frena e la vita si allunga il rapporto tra persone in età lavorativa e persone inattive, il cosiddetto tasso di dipendenza, non può che peggiorare. Questo compromette la capacità del welfare di garantire materialmente le pensioni o altri servizi che dipendono dai contributi dei lavoratori. In modo analogo viene indebolita anche la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale. I giovani hanno un saldo netto negativo in quanto contribuiscono molto al finanziamento del sistema sanitario e lo utilizzano relativamente poco, mentre gli anziani hanno un saldo netto positivo e determinano un aumento della domanda di salute”.

Il fatto che in Italia la denatalità si confermi ogni anno desta non poche preoccupazioni poiché, per un perverso meccanismo che Franzini illustra molto efficacemente, “un basso tasso di natalità riduce nel lungo periodo la crescita della produttività, riducendo la crescita della produttività i redditi crescono di meno, riducendo la crescita dei redditi si fanno meno figli e la denatalità aumenta”.

Quello della denatalità, inoltre,  è un problema molto complesso in cui la disuguaglianza di genere gioca un ruolo molto significativo.  Anche nelle fasce a reddito medio alto risulta ancora troppo difficile conciliare lavoro e genitorialità e il timore di perdere il lavoro in seguito a una maternità influisce negativamente sulla diffusa percezione di una spiccata precarietà del reddito familiare. Occorrerebbe, invece, tenere sempre bene a mente che “i figli sono un ‘bene pubblico’ e la società deve predisporre risorse e politiche di varia natura per avere un tasso di fertilità più elevato, senza dover gravare troppo sulla vita dei singoli e senza dover penalizzare troppo chi svolge anche questa funzione sociale”.

Erica Sorelli
Ufficio Stampa Il Pensiero Scientifico Editore


Forward #20 | Avviene
Storie che raccontano un divenire di cui forse non abbiamo ancora messo a fuoco del tutto i contorni.

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