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Per Dante la salvezza è nel cuore

Sull’ultimo numero del Giornale Italiano di Cardiologia è stato pubblicato un interessante articolo sull’immagine del cuore che Dante ci consegna nella sua opera aldilà della più comune metafora letteraria che lo vede come sede tradizionale dei sentimenti.

Tutta la storia della poesia di Dante inizia con un sogno, che egli stesso racconta nell’opera che raccoglie e dà ordine alle sue poesie giovanili, la “Vita nova”. Da questo sogno – spiega Davide Profumo, brillante letterato e raffinato cultore della letteratura dantesca – prende le mosse tutta la storia del suo percorso poetico: al centro vi è il cuore, che rappresenta il nucleo centrale dell’intero e accidentato cammino dantesco di salvezza, dall’inferno al paradiso. Ripercorrendo le opere di Dante,  “tale cammino potrebbe essere anche inteso come un percorso di guarigione, in cui non mancano le descrizioni dei sintomi, le medicine e i medici a cui affidare la nostra salute.”

Il sogno che viene raccontato nella “Vita nova” coinvolge il giovane Dante, appena diciottenne, a cui appare Amore, dio terribile, che tiene tra le sue braccia Beatrice, la fanciulla che ha appena incontrato per le strade di Firenze e che lo ha salutato andando a incarnare una volta per tutte la figura di colei che salutandolo gli dona salutem, che è significa “salvezza” in latino, ma anche propriamente “salute”, “guarigione”. Nel sogno, Amore tiene nel palmo della mano una «cosa la quale ardesse tutta», rossa di sangue e bruciante di passione, che è il cuore stesso del poeta, a cui dice: «Vide cor tuum!» («Guarda il tuo cuore!»). Esclamazione che è già consiglio, medicina addirittura.

Dopodiché, Amore prende il cuore del poeta e lo offre come cibo a Beatrice che lo mangia, seppur «dubitosamente», come se esitasse. La scena onirica si chiude con Amore che comincia a piangere e si leva verso il cielo, portando con sé la donna, mentre Dante si sveglia.

Secondo l’analisi letteraria di Profumo, prima ancora di sognare Beatrice “che gli avrebbe mangiato il cuore, prima ancora di sapere che si sarebbe perso nella selva oscura delle sue malattie e dei suoi errori, e che si sarebbe grazie a lei (malattia e medicina) ritrovato, e che nel giardino dell’Eden, per un’ultima volta, il sangue gli avrebbe tremato davanti a lei e che lassù il suo amore avrebbe trovato definitivo compimento, prima di lasciargli una sola e ultima goccia di sangue davanti al fiore in cui stanno in eterno i beati, in contemplazione di Dio, il giovane Dante scriveva di Beatrice così: “Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente che apparia ne li mènimi polsi orribilmente; e tremando, disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi»”.

In altri termini, conclude Profumo, fin dalla prima pagina dell’opera di Dante, fin dal primo incontro con Beatrice – colei che lo avrebbe guarito dopo averlo reso ammalato – c’erano il cuore, il tremore, il sangue, i polsi, la vita che rischiava di fuggire:  “Tutti i «fattori di rischio», direste forse voi cardiologi; gli ingredienti perfetti di una storia d’amore e di salvezza, pensava il poeta”.

 

Erica Sorelli
Ufficio Stampa Il Pensiero Scientifico Editore

 

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