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Povertà vitale, la nuova forma di disagio della civiltà

povertà vitaleÈ il 1930 quando viene pubblicato per la prima volta in tedesco Il disagio della civiltà, saggio sociopolitico in cui Sigmund Freud, l’inventore della psicoanalisi e della cura dell’anima con l’uso della parola, individua i nodi salienti della sua epoca in un irrimediabile conflitto tra individuo e civiltà. Conflitto che però produceva, a suo modo, un equilibrio, sia pure sempre precario, tra tensioni individuali e bisogno di sicurezza. C’era stata la devastazione di una guerra mondiale, e un’altra con campi di concentramento e stermini di massa era prossima: a distanza di meno di un secolo, come fossero passati millenni, c’è un nuovo disagio della civiltà, che non necessariamente sfocia in un disturbo psicopatologico ma è grave e capillare. Stravolti i principali riferimenti valoriali, le categorie di lettura della realtà necessitano di un aggiornamento. Dalla postmodernità all’ipermodernità, anche la relativa fiducia nella civiltà è venuta meno, il legame delle persone con le istituzioni e tra loro è in crisi, la sofferenza psichica è sempre più collegata all’ambito sociale e culturale. Per questo, la psichiatria, che per definizione è una scienza in divenire, deve riferirsi al contesto sociopolitico per riuscire a comprendere le nuove forme di disagio mentale. Il libro La povertà vitale. Disuguaglianze e salute mentale, pubblicato da Il Pensiero Scientifico, se ne occupa a tutto tondo, proprio a partire dalla nuova formula di “povertà vitale”.

Ne sono autori Alberto Siracusano, psichiatra e psicoanalista, ordinario di psichiatria, direttore della Scuola di specializzazione in Psichiatria e direttore del Dipartimento di Medicina dei sistemi dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Unità operativa complessa di Psichiatria della Fondazione Policlinico Tor Vergata, e Michele Ribolsi, ricercatore dell’Università di Roma Tor Vergata. Il libro è stato recentemente presentato, nello spazio Rete per il sociale di Roma, da Siracusano che ha dialogato con Stefano Vicari, primario di neuropsichiatria infantile all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.

Prendiamo spunto da Michael Marmot, professore di epidemiologia alla University College London, che ha coniato l’espressione di “malattia della povertà”. Oggi, sottolinea Marmot, il disagio non è più solo questione di reddito, anche se gli studi hanno evidenziato che lo sviluppo cognitivo e neuroevolutivo dei bambini in condizioni di indigenza, è ben diverso da quello di coetanei che vivono in contesti vivaci sia sul piano economico e culturale, e può predisporre a un certo quadro psicopatologico. Il reddito influisce senza dubbio sull’assottigliamento della corteccia cerebrale durante l’età evolutiva, ma la tesi del libro di Siracusano e Ribolsi è che, accanto ai fattori di rischio tradizionali per la salute mentale, debbano essere considerati anche elementi di carattere economico e sociale. In altri termini, oggi siamo in presenza di un nuovo “spettro”, tanto invisibile quanto devastante, che si aggira un po’ ovunque, tanto nei contesti più poveri quanto in quelli più agiati. Si tratta della cosiddetta “povertà vitale”, ovvero valoriale, concettuale, affettiva.

Il concetto, con una forte connotazione scientifica, è stato sviluppato dagli autori per aggiornare i paradigmi di riferimento della psichiatria, “recuperando l’importanza della componente sociale per affrontare i disturbi mentali” perché l’organizzazione sociale condiziona la salute mentale. “La povertà vitale – ha chiarito Siracusano – non è la depressione, anche se può esserci depressione. Non è legata alla mancanza depressiva, ma alla mancanza di contatti con gli altri e con se stessi. E’ una condizione più esistenziale che psicopatologica, anche se può avere conseguenze psicopatologiche, è un’esperienza in un contesto sociale deprivato”.

Il concetto allargato di povertà sviluppato dagli autori aiuta a capire “la dimensione non materiale della povertà”. È una condizione “caratterizzata da un sentimento di vuoto interiore, da una mancanza di significato della propria vita”. Sostiene Siracusano che “le persone vanno impoverendosi del senso della loro vita”, ovvero viene meno, in parte o del tutto, la progettualità, il senso del futuro, la resilienza. Quando mancano condizioni materiali basilari quali casa, lavoro, una fonte sicura di reddito, in un ambito di “povertà di relazioni, povertà affettiva, vuoto di senso, caduta dei valori, perdita del senso morale e religioso”, la vulnerabilità psicopatologica aumenta.

Incarna drammaticamente questo impoverimento, la cosiddetta generazione Neet (Not-engaged in education, employment or training), ragazzi che hanno smesso di studiare, che non cercano un lavoro e vivono in una condizione di ritiro sociale senza ambizione, sospesi in un limbo spesso virtuale.

Su un fronte completamente diverso, altri riscontri di povertà vitale, vengono rappresentati dal bullismo, anche telematico, che spesso sfocia in episodi tragici e violenti come quelli che sempre più spesso la cronaca racconta.

Possiamo dunque concludere affermando che povertà e disuguaglianza producono isolamento sociale, loneliness, dis-affiliazione. Si tratta di condizioni di incertezza ben diverse dalla “solitudine che aiuta a crescere”. La povertà vitale, concetto estremamente ricco che può essere illuminante chiave di lettura della storia almeno degli ultimi trent’anni, “porta con sé problemi sociali, culturali e politici non banali”,  a cui si aggiungono secondo Siracusano “assiomi collettivi inconsci quali la paura, il senso di solitudine e di abbandono”, ben visibili nelle periferie problematiche dove spesso si assiste all’impotenza della psichiatria e delle cure di fronte alla problematicità dell’integrazione.

Il libro La povertà vitale non offre soluzioni ma invita i professionisti della salute mentale a coltivare una tensione positiva: “Ora che cominciamo a conoscere meglio la povertà vitale, bisogna ritrovare la ricchezza vitale”, commenta Siracusano, “alla ricerca di quei modelli vitali e valoriali che oggi mancano”. Chi lavora sulla mente, deve produrre idee e stimoli per aiutare le persone a svilupparsi in maniera più vitale, con l’obiettivo di far trovare o ritrovare il gusto pieno della vita, andando oltre al microsecondo d’appagamento provocato da un like conquistato sui social.

Piera Lombardi

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