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Una cura per la sindrome di Down?
Il 25 giugno 1995, alla nascita della sua unica figlia, la vita di Alberto Costa, professore associato alla Medicine and Neuroscience Division of Clinical Pharmacology and Toxicology dell’University of Colorado di Denver, è cambiata per sempre. Ma non in meglio come accade a tutti gli uomini quando diventano padri: è cambiata drammaticamente in peggio, perché alla piccola Tyche è stata diagnosticata la sindrome di Down. Una perversa concatenazione di eventi ha inoltre fatto sì che questa notizia giungesse inaspettata: due precedenti gravidanze non erano giunte a compimento rispettivamente per un aborto spontaneo e per un aborto causato da un esame genetico molto invasivo, il prelievo dei villi coriali, per cui i coniugi Costa avevano deciso di comune accordo di non effettuare test prenatali in occasione della terza gravidanza.
“Tutto quello che riuscivo a pensare stringendo la manina di Tyche era: è la mia bambina, è una bambina adorabile, cosa posso fare per aiutarla? Sono un medico, un neuroscienziato, possibile che non possa fare nulla per mia figlia?”, racconta Costa al New York Times. La decisione era obbligata: lo scienziato decise quella notte di dedicare tutti i suoi sforzi alla ricerca sulla sindrome di Down. Un campo che era in quegli anni alla vigilia di molti cambiamenti. “Un tempo credevamo tutti non ci fosse nessuna speranza di trattamento e di cura per chi soffre di sindrome di Down. Quindi perché perdere tempo a fare ricerca?”, spiega Craig C. Garner, professore di Psichiatria e condirettore del Center for Research and Treatment of Down Syndrome della Stanford University. “Ma gli ultimi dieci anni hanno visto una vera e propria rivoluzione nel campo delle neuroscienze, e ora sappiamo che il cervello è un organo incredibilmente plastico, flessibile, con sistemi funzionali che possono essere in qualche modo riparati”.
Tredici anni dopo quella notte di giugno, nel 2008, Costa ha pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology un pionieristico studio sull’utilizzo della memantina – un farmaco che agisce sul sistema glutamatergico comunemente usato per rallentare il declino cognitivo nei pazienti con malattia di Alzheimer – per potenziare la memoria e le performance cognitive in topi geneticamente modificati per soffrire di una sindrome molto simile a quella di Down. Questi topi, denominati Ts65Dn, sono stati sviluppati da Muriel Davisson del Jackson Laboratory di Bar Harbor: Costa ha dimostrato che una singola iniezione di memantina produce benefici comportamentali drammaticamente positivi in pochi minuti, consentendo ai topi GM di imparare con la stessa velocità dei topi normali. “Il farmaco funziona”, ipotizza Costa, “normalizzando l’utilizzo del neurotrasmettitore glutammato da parte delle cellule cerebrali”.
Per comprendere questo meccanismo, facciamo un passo indietro. “Pensateci: la maggior parte dei disordini genetici viene causato da un gene, anzi da una mutazione presente in un aminoacido”, spiega Roger Reeves dell’Institute for Genetic Medicine della Johns Hopkins University School of Medicine. “Ma nella sindrome di Down abbiamo una copia extra di tutti i circa 500 geni del cromosoma 21”. Analizzare e governare tutte le irregolarità nei processi molecolari gestiti da queste centinaia di geni è sempre stata una prospettiva raggelante per gli scienziati. Una delle conseguenze di avere tre copie di tutti i geni è la presenza del 50% in più di ogni proteina codificata da quei geni, col risultato – tra l’altro – che i recettori NMDA dei pazienti (e dei topi Ts65Dn) sono iperattivi e travolti da troppi stimoli e non riescono a isolare i segnali “giusti£ dal “rumore di fondo”. La memantina riesce a regolarizzare la funzionalità dei recettori NMDA, permettendo alle cellule cerebrali di funzionare quasi normalmente.
Oggi Costa sta testando il farmaco su 40 pazienti umani in uno studio randomizzato versus placebo: i risultati preliminari saranno disponibili nell’autunno del 2011, ma l’attesa è spasmodica, perché l’idea di avere sul mercato un farmaco in grado di potenziare le performance cognitive delle persone con sindrome di Down è elettrizzante. Ma questa rivoluzione potrebbe essere soffocata sul nascere: sul mercato sono in arrivo anche test prenatali di nuova generazione completamente non-invasivi (sostanzialmente da effettuare mediante un semplice prelievo di sangue) che permetteranno lo screening di routine per la sindrome di Down già nelle prime tre settimane di gravidanza. L’imminente approvazione di questi test preoccupa molto lo staff di Costa, perché il drastico calo nell’incidenza della sindrome di Down che sicuramente seguirà la diffusione degli screening potrebbe portare a un taglio netto dei finanziamenti concessi alla sua ricerca dall’industria.
“È come se fossimo in gara contro i ricercatori che stanno lavorando su quei test precoci”, ammette Costa. “Se non siamo abbastanza veloci, l’interesse per il nostro campo di ricerca collasserà”. Già adesso i finanziamenti per la ricerca sulla sindrome di Down negli Usa non sono poi così ingenti: 22 milioni di dollari nel 2011 a fronte per esempio dei 68 milioni di dollari stanziati per la ricerca sulla fibrosi cistica, una patologia che colpisce circa 30.000 persone negli Stati Uniti, a fronte delle quasi 400.000 persone con sindrome di Down. “I genetisti si aspettano che la sindrome scompaia, che questa sia forse l’ultima generazione con bambini Down, quindi perché investire su un farmaco per Down adulti?”, conclude preoccupato Costa.
Il cammino del trattamento farmacologico della sindrome di Down non è ostacolato solo da problemi finanziari, ma anche da altri aspetti meno comprensibili ma non meno importanti. Non tutti i genitori di bambini Down, per esempio, si dichiarano entusiasti della prospettiva di somministrare un farmaco che potenzi l’intelligenza dei loro figli. Un recente sondaggio in merito effettuato in Canada ha svelato che il 27% di loro non accetterebbe di usare il farmaco, e il 32% si dichiara incerto. Oltre alla consueta sfiducia verso i prodotti farmaceutici, gioca a quanto pare la preoccupazione che un farmaco del genere potrebbe causare cambiamenti profondi nelle personalità dei pazienti Down. “A nessuno verrebbe mai in mente di essere contro la somministrazione di insulina ai diabetici”, ammette Michael Bérubé, direttore dell’Institute for the Arts and Humanities della Pennsylvania State University, che ha un figlio Down. “Ma questa sindrome non è come il diabete, il vaiolo o il colera. È più variabile, sfumata, complicata: avrei paura a scompigliare i talenti che mio figlio dimostra, la sua dolcezza. Al tempo stesso, non sono dottrinario. Se parliamo di un farmaco che permette a persone Down di avere un ruolo nella società e persino avere un lavoro, come puoi essere contrario?”.
Fonte
Hurley D. A drug for Down Syndrome. The New York Times 29.07.2011.