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Woody Allen, Monopoli e i nostri malesseri

Un articolo surreale di Woody Allen sul New Yorker spiega come i soldi possano dare la felicità. O forse è un’illusione: è Monopoli.

Woody narratore è più stralunato di un adolescente che ha appena imparato a rollare; stasera, però, la provocazione più che nella breve trama è nel titolo, che pretenderebbe che i soldi comprassero la felicità. E’ un luogo comune, che oggi appare tanto vero e confermato quanto stonato, ridicolamente fuori luogo. Il pensiero è a un paese preso in giro da chi, con il denaro, pensa di poter ottenere qualsiasi cosa: in meno di una settimana, è stata derisa la dignità dei lavoratori della più rappresentativa fabbrica italiana e umiliata la condizione faticosamente raggiunta da milioni di donne italiane. Il denaro e due simili forme di ricatto, che fanno leva sulla povertà e la precarietà.

Il paradosso descritto da quel genio di Woody Allen (della serie: se hai culo e costruisci su Parco della Vittoria e Viale dei Giardini non ce n’è per nessuno e neanche si discute) è davvero difficile credere possa resistere alla prova della vita reale. Del mondo concreto. Della vita vera, di tutti i giorni, quella che vive la gente. Invece…

Invece parli al mattino con il responsabile della biblioteca di una grande università italiana che dice: “non abbiamo più fondi, anche mille euro per noi sono troppi per garantire l’accesso alle vostre 20 riviste ai 291 docenti della facoltà”. E di sera sei di fronte alla notizia dei 5000 euro avuti da una ragazza per prestazioni sessuali (vere? immaginate? reali? sognate? presunte?) con persone importanti (Lele Mora: “importante”?).

Poveri, noi: leggi il libro di Marco Revelli, vale la pena (costa dieci euro, tra l’altro). Intorno a noi convivono moderno, postmoderno e premoderno: slanci di innovazione, speranze di avanguardia, arretratezze imbarazzanti. “Un paese – scrive Revelli – nel quale una parte consistente della popolazione cessi di considerare diritto pubblicamente garantito la propria aspirazione a una vita degna, finisce inevitabilmente per trasformare il gioco sociale e politico in uno scambio diseguale, tra chi è costretto a chiedere ’protezione’ e chi, in cambio, pretenderà ’fedeltà’”.

Seguendo ciò che accade capiamo meglio cosa vuol dire Revelli quando parla della condizione che in tanti percepiamo di “povertà mentale”. Qualche volta è indipendente dalla oggettiva povertà economica: è una sensazione di malessere che prova “chi è declinato credendo di crescere”.

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