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Cambiare si può

In Italia ci si laurea in medicina senza che nessun docente abbia insegnato come comunicare col cittadino-utente. Cosa suggerirebbe per cambiare le cose?

L’insegnamento universitario è frequentemente concentrato sulla trasmissione di nozioni, dati e competenze teoriche (magari molto aggiornate). In Italia ci sono però delle lacune che risentono di un sistema e di una cultura per molti versi obsoleti. Non c’è un insegnamento obbligatorio sugli strumenti di counseling o relativo alla comunicazione medico-paziente. Io sono convinto che la relazione sia di per sé terapeutica. Non solo un modo corretto di dialogare coi pazienti e di motivarli li aiuta ad una migliore aderenza alle terapie, ma esso stesso ha effetti curativi. Troppo superficialmente tutto ciò viene etichettato come effetto “placebo”, nella realtà dei fatti molti studi ci dicono che gli approcci relazionali di sostegno sortiscono effetti misurabili, talora paragonabili a quelli ottenibili con i farmaci. È noto l’effetto della psicoterapia sulla depressione e sono note le modifiche su specifiche aree del cervello che ne derivano. Ma senza entrare nel campo degli psicologi, è importante ribadire che il rapporto di aiuto connaturato nell’esercizio delle professioni sanitarie è uno strumento che permette un significativo guadagno di salute.
Un’altra lacuna didattica è quella che riguarda l’insegnamento degli stili di vita (per esempio attività fisica e sana alimentazione) e del trattamento del tabagismo. In quasi ogni capitolo della patologia medica viene ricordato il fumo di sigaretta come fattore di rischio principale. Ma poi quasi nessuno insegna agli studenti come trattare la dipendenza da tabacco. Tutto viene affidato al buon senso e alla “buona volontà”, quasi che la semplice conoscenza dei danni da fumo bastasse a curare il tabagismo.

C’è qualche paese in cui la formazione “funziona” diversamente?

Il “paese modello” non esiste. Le lacune sono tante e diffuse. Nelle nazioni anglosassoni (e non in tutte), però, c’è una maggiore tendenza a fare riferimento alle linee guida e alle raccomandazioni degli organismi sanitari internazionali. Forse in modo un po’ direttivo e schematico, ma alcune indicazioni vengono trasferite nella realtà. Nel nostro caso c’entra un certo individualismo e forse uno scarso pragmatismo che finiscono per permeare il modo di vivere la professione. Un esempio fra tutti: la contraddizione tra ciò che diciamo e ciò che pratichiamo. La prevalenza di fumatori tra i medici inglesi è intorno al 4-5%, tra i medici italiani del 22-24%.

Che differenza c’è tra “informare” e “promuovere il cambiamento”?

Una differenza importante. Le informazioni raramente cambiano i comportamenti, soprattutto se questi sono radicati da decenni o addirittura siamo davanti a delle dipendenze vere e proprie. Il cambiamento è un percorso complesso che non scatta solo dopo l’acquisizione di dati o solo attraverso un processo cognitivo/razionale. Ci sono di mezzo le emozioni, i convincimenti, le paure, la fatica di affrontare il nuovo. Non stiamo parlando di un processo lineare, come spesso si pensa. Un operatore dice: spiego che questo stile alimentare fa male e il paziente si convince. Se non ne vuol sentire aumento le spiegazioni o provo a spaventarlo con l’esposizione dei danni che posso derivare, aumento la dose di informazione e questo produrrà un cambiamento. Non è così.

Perché allora la gente non cambia?

C’è un capitolo, nel mio libro Stili di vita e tabagismo, dedicato al perché le persone non cambiano. È un problema a più variabili. Alla base può esserci una carenza di informazioni, ma per lo più si tratta di un equilibrio che si concentra sui vantaggi dello “status quo” (spesso vantaggi inconsapevoli), una scarsa self-efficacy, un grado di dissonanza cognitiva basso, una scarsa speranza di raggiungere il risultato, la difficoltà a prefigurarsi delle alternative rispetto all’attuale, eccetera. Sono esaminati i fattori interni ed esterni che ostacolano il cambiamento, e nessuno di questi è banale. Gli operatori sanitari intervengono spesso in momenti cruciali per la vita delle persone e rivestono un ruolo importante: vengono ascoltati, stimati, sono in una situazione privilegiata, possono diventare straordinari promotori di benessere. Ma bisogna considerare anche l’altra faccia della medaglia, cioè il funzionamento degli operatori. Mi sono spinto a considerare, in una sezione del libro, la situazione in cui il problema è costituito (anche) dall’operatore sanitario. Praticare strumenti di counseling significa anche interrogarsi, rivedere un po’ il proprio stile di comunicazione, insomma sentirsi implicati nel processo di cambiamento.

Cos’è il “minimal advice” e perché è importante che il medico sappia come gestire questi brevi spazi di colloquio?

Il “Minimal advice” è lo spazio, piccolo quanto a durata (spesso pochi minuti), che il medico o gli altri operatori sanitari hanno a disposizione per fornire consigli, suggerimenti. È un tempo che, se utilizzato con la giusta tecnica, può avere un impatto formidabile. Gli studi sul tabagismo, per esempio, ci dicono che un minimal advice applicato correttamente arriva a triplicare il tasso di cessazione dal fumo. È difficile trovare in medicina una innovazione o un farmaco che migliori la guarigione di una patologia moltiplicando in questo modo l’efficacia. Per riuscire in questo obiettivo il libro fornisce numerosi strumenti mutuati dalle tecniche di counseling e dall’approccio del colloquio motivazionale, anche se non ci si vuole sostituire ad altri professionisti, ma focalizzare l’intervento all’ambito sanitario.

A suo parere, quale grado di invasività può consentirsi lo stato nel determinare/orientare lo stile dei vita dei cittadini?

L’equilibrio tra libertà individuale e bene comune non è facile da trovare. Ci sono ambiti in cui la collettività può avere un guadagno di salute solo se tutti mettono in atto pratiche di prevenzione. Succede già per le vaccinazioni. Non sarebbe stato possibile debellare il vaiolo e combattere efficacemente la poliomielite se la copertura vaccinale non fosse stata molto estesa. Tutti ci siamo accollati un piccolo sacrificio per proteggere chi sarebbe stato più vulnerabile alle conseguenze delle infezioni. Rispetto agli stili di vita, come il modo di mangiare e il livello di attività fisica, lo stato deve facilitare le scelte salutari e scoraggiare quelle che provocano malattia, ma credo ci debba essere il rispetto totale delle scelte individuali. Quando parliamo di tabacco il problema diventa più complesso, perché siamo davanti ad una sostanza psicotropa che agisce sul cervello creando dipendenza, con un ordine di gravità paragonabile a quella di droghe maggiori, come hanno dimostrato numerose ricerche. L’impatto a breve termine non somiglia a quello dell’eroina o della cocaina, ma gli effetti a lunga distanza sono devastanti, e le probabilità di uscire dalla dipendenza da soli sono molto basse. Nel caso di queste sostanze lo stato deve avere un’azione protettiva e dovrebbe ostacolare la diffusione del tabacco. Bisogna ricordare che la scelta di diventare fumatori la si compie tra i 13 e i 19 anni, in un periodo di grande vulnerabilità. Ma è una scelta che spesso condiziona tutta la vita, dal momento che solo il 2-4% dei fumatori riesce sganciarsi spontaneamente ogni anno. Senza considerare che si tratta di una dipendenza in cui possono cadere tutti: persone con disturbi mentali, minorenni, cittadini fragili, che hanno scarse risorse per venirne fuori. È una gabbia con le porte facilitate in ingresso, che imprigiona con forza e da dove i più deboli sono svantaggiati rispetto alle probabilità di uscirne.
Per tali motivi lo sforzo di apprendere tecniche corrette di trattamento del tabagismo dovrebbe essere fatto da tutti i professionisti della salute, sia da chi può dedicare un solo intervento di pochi minuti, sia da chi ha la possibilità di condurre un percorso multi-step, strutturato e con l’uso di farmaci. Alla cura della dipendenza da tabacco in ambulatorio è dedicato un capitolo ricco di molti esempi e schemi operativi. In qualsiasi caso, al di là delle politiche sanitarie e dei provvedimenti legislativi, l’approccio individuale dei sanitari deve essere improntato al rispetto delle scelte dei loro pazienti, con modalità non giudicanti, empatiche, connotate da un atteggiamento di sostegno e incoraggiamento. Questo non è un libro per imparare a “convincere” le persone ma per trovare le chiavi motivazionali. Tutto ciò non può essere fatto con un atteggiamento direttivo, né “contro” qualcuno, ma “insieme” ai nostri interlocutori.

4 luglio 2012

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