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Diritto di partecipare, dovere di informarsi

“L’attacco non è da manuale su come farsi degli amici: la medicina fa schifo, dottori e case farmaceutiche anche. I pazienti? Complici. Leggetelo tutto di un fiato, invece”. Così Bandolier presenta “Come sapere se una cura funziona“. Una lettura da suggerire a medici e non, secondo Franz Porzsolt, perché “i pazienti informati possono davvero contribuire a migliorare il modo in cui vengono testati i trattamenti”.


La Recensione di Franz Porzsolt su Evidence-Based Medicine

Un giornalista medico-scientifico, un paziente in un momento critico della sua vita e un noto scienziato sono riusciti a compendiare nel loro libro, “Come sapere se una cura funziona“, una serie di esempi di grande efficacia.

Si tratta di un testo scritto per chi scienziato non è, un “must” per quanti desiderino capire e valutare l’assistenza sanitaria in maniera critica, ovvero, per coloro che vogliano compartecipare e condividere pienamente con il proprio clinico le decisioni sulle cure. Per quelli che esercitano la professione medica, invece, è il libro ideale per rinfrescare la memoria di passate lezioni accademiche. La qualità delle informazioni è semplicemente la migliore disponibile.

Il primo capitolo descrive i risultati dei nuovi, ma non per questo migliori trattamenti: come la cecità nei bambini prematuri associata a incongruo utilizzo dell’ossigeno-terapia, le morti in culla causate dalla posizione prona fatta assumere ai neonati durante il sonno, o ancora l’appropriata descrizione di vantaggi e rischi associati con la terapia ormonale nelle donne in menopausa.

Il secondo capitolo tratta delle terapie non sottoposte a prove in modo adeguato, come la mastectomia radicale e la chemioterapia ad alte dosi. Da queste lezioni, dovremmo imparare che quanto più il danno è associato ai benefici attesi, tanto più un trattamento deve essere ampiamente testato.

I concetti chiave per sapere se una cura funziona sono spiegati nel terzo e nel quarto capitolo. Il linguaggio usato in questo contesto è facilmente comprensibile. Sorprende l’apprendere che taluni ricercatori si muovano in modo piuttosto arrogante all’interno delle aree di incertezza sulle cure mediche. Per esempio, quando continuano a raccomandare il ricorso agli anti-aritmici, nonostante le evidenze dimostrino il contrario. Questa parte del libro spiega in modo efficace quelli che sono gli errori sistematici, i bias, che continueranno ad esistere nella misura in cui l’autore o il lettore di articoli scientifici non pongano particolare attenzione a questi rischi.

Non soltanto i medici, ma anche i pazienti dovrebbero essere in grado di capire la differenza tra ciò che è buono, ciò che è cattivo e quanto è assolutamente inutile per la ricerca scientifica, come delineato nei capitoli 5 e 6. L’evoluzione della medicina moderna rende necessaria la partecipazione dei pazienti alle scelte di cura, nel processo che viene definito “decision making”. Prima di tutto, però, i pazienti devono comprendere le posizioni di tutti gli altri “portatori di interesse” del sistema: medici certi della correttezza della propria specialità, industrie impegnate a sostenere i propri prodotti e direttori sanitari convinti della necessità di servirsi delle innovazioni tecniche. Soltanto i pazienti informati possono realmente contribuire a migliorare il modo in cui vengono testati i trattamenti.

Il manifesto per una rivoluzione altro non è, se non l’allusione al fatto che proprio il paziente informato è la migliore garanzia per un’assistenza sanitaria di qualità e sicura. I riferimenti bibliografici e la lista delle risorse addizionali completano le circa 140 pagine di un testo, che io ritengo particolarmente importante, tanto da andare alla ricerca di qualcuno che lo possa tradurre in lingua tedesca, pubblicarlo e finanziarlo, così da rendere le preziose informazioni in esso contenute disponibili anche per i lettori tedeschi che non mastichino l’inglese.

Recensione pubblicata su Evidence-Based Medicine 2007; 12: 91

La recensione di Bandolier

Sfortunatemente in molti saranno contrariati dopo la lettura delle prime pagine, ma dovrebbero perseverare, perchè finirebbero per essere d’accordo con la sua tesi principale.

L’attacco non comparirà in nessun manuale di strategie su come farsi degli amici o influenzare qualcuno. Il messaggio “puro” sembra essere che la medicina fa schifo, dottori e case farmaceutiche sono da biasimare, e il resto di noi è solo un complice privo di spina dorsale nel permettere che accada ciò che accade. Il quadro non viene per niente allegerito da alcuni  aneddoti sugli anni Ottanta dell’ex presentatore Tv Nick Ross. I primi capitoli vi vedranno inveire contro il libro molto più di quanto lo fareste davanti ad un politico parassita che spiega in Tv perchè il NHS è meglio oggi di quanto lo fosse prima. Si, ma… urlando molto di più e più volte.

Si proverà la sensazione, giustificata, che molte critiche sono sleali, in larga parte perché sono esempi noti che fanno parte della storia della medicina. Fatti accaduti negli Cinquanta, o negli anni Novanta, possono sembrare attuali se il contesto è adatto, ma il ritmo delle evoluzioni nell’ambito della medicina è stato talmente rapido da farli sembrare preistorici.

Bandolier se lo ricorda bene, essendosi trovata a dover far notare chi fosse Sir Hans Krebs (sì, del ciclo di Krebs) ad alcuni visitatori nei primi anni Ottanta, poco prima della sua morte. Pensavano fosse morto nel secolo precedente! Oppure l’esempio di un famoso farmacologo clinico che sosteneva che fosse il sedicesimo compleanno della sua disciplina.

Si penserà, non del tutto erroneamente, che avrebbe giovato qualche tentativo in più di bilanciare le criticità con i successi, non solo nell’ambito della terapia, ma anche dei processi. Non avrebbe guastato una discussione sui fallimenti degli studi clinici e i conseguenti sviluppi nella loro regolamentazione e monitoraggio. Che opportunità mancata, quella di esplorare la benevola tirannia di enti come l’FDA nel monitorare cosa accade negli studi clinici. Che dire di una discussione reale sulla risposta individuale del paziente e l’assoluto bisogno di farmaci me-too, piuttosto che un cenno distratto?

Questi pensieri vi passeranno per la testa per tutta la prima parte del libro. Anzi tale sarà la loro intensità che la tentazione di abbandonare la lettura o di mettere il libro da parte per un giorno, che non verrà mai, sarà forte. Non fatelo, leggetelo tutto di un fiato.

I primi due terzi sono una sorta di sistema di controllo qualità, che serve a scoprire quanto male vadano le cose. Vista in quest’ottica, gli autori sono sorprendentemente umili. C’è sicuramente molto altro che potrebbe essere detto su quanto le cose sono andate e vanno male. C’è molto di più per cui arrabbiarsi.

Il restante terzo del libro ti ripaga, è interamente dedicato a come rendere le cose migliori. Naturalmente non è possibile racchiudere tutto quanto serve per fare la ricerca migliore in un libro così snello. Per esempio, sappiamo che la ricerca clinica nel Regno Unito sta per uccidersi con le proprie mani, una situazione terribile almeno quanto se non peggiore di quella fotografata da un recente editoriale del Lancet.

Gli autori chiedono una maggiore partecipazione di cittadini e pazienti alla ricerca clinica, e forniscono un certo numero di interessanti esempi di situazioni in cui ciò accade. Quando succede si hanno ricerche migliori, esiti più rilevanti, un linguaggio migliore, una maggiore partecipazione dei pazienti stessi, non solo coinvolti ma anche informati. Gli autori presentano un programma i cui punti chiave sono:

  1. incoraggiare l’onestà dove ci sono incertezze sugli effetti del trattamento.
  2. Mettere a confronto gli standard previsti dal consenso al trattamento, sia nel caso che si partecipi al trial clinico, sia nel caso non si partecipi.
  3. Aumentare la conoscenza su come giudicare l’affidabilità delle denunce sugli effetti del trattamento.
  4. Aumentare la capacità di disegnare, sostenere e diffondere revisioni sistematiche sulle prove disponibili sugli effetti di una terapia.
  5. Combattere le nefandezze scientifiche e il conflitto di interessi dall’interno della comunità scientifica.
  6. Chiedere all’industria di fornire evidenze migliori, più complete e più rilevanti sugli effetti dei trattamenti.
  7. Identificare come priorità di ricerca quella di affrontare la questione degli effetti collaterali dei trattamenti, ritenute importanti da pazienti e medici.

È probabile che anche di fronte all’elenco di questi punti chiave qualcuno resti contrariato. In molti si chiederanno se sia tutto; sottolineando che, se qualcuno provasse a chiedere finanziamenti per la ricerca a partire dal punto 7, sarebbe quasi certamente destinato a fallire. E chi pagherebbe? L’industria no, perché non è un suo problema. Il  governo no, perché sarebbe sciocco. Forse, in una giornata favorevole, in discesa, e con vento a favore, potremmo ottenere qualche briciola di carità; ma il loro obiettivo è arrivare a delle cure, e questo vuol dire fare ricerca di base.
Ma nessuna di queste cose importa. O meglio, importa, ma non è questo il punto. Il punto è che ci sono modi per fare le cose meglio di come a volte le facciamo, e se è possibile farle meglio, dobbiamo provarci.

In molti odierete questo libro. Più si sa della ricerca clinica, più si rischia di odiarla. Più si è a rischio di odiarla, più è necessario leggere questo libro. Mette in subbuglio, ed è proprio questo forse l’intento degli autori. Per questo, ci riesce. Ancora un po’ di polemiche sulle questioni pratiche e sui problemi di finanziamento della ricerca clinica, su quanto sia importante e quanto ci stiamo perdendo.

Recensione pubblicata su Bandolier

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