In primo piano
I cento anni della Psicopatologia generale
La Psicopatologia generale compie 100 anni nel 2013. Quale profilo di attualità mantiene? È ancora utile la lettura dell’opera per formarsi alla clinica?
Credo che il libro di Jaspers sia ricchissimo di osservazioni cliniche, molto vivide, libere da molte sovrastrutture, attente a mettere in questione le astrazioni che corrodono anche i discorsi più attenti alle esperienze dei pazienti. In fondo la fenomenologia, che è la corrente filosofica a cui Jaspers attinge molti dei suoi strumenti, ha molto a che vedere con questo esercizio di descrizione, di sospensione delle astrazioni teoriche, di incontro ravvicinatissimo con la singolarità dell’esperienza che ci sta di fronte. Oggi le categorie della clinica sono cambiate, e spesso sono cambiate le espressioni della sofferenza umana, ma questa esigenza di uno sguardo consapevole delle proprie astrazioni, desideroso di ritornare alla concretezza, questa esigenza rimane identica, rimane un compito urgente per il clinico, e forse rimane un compito non solo preliminare, non solo propedeutico all’intervento terapeutico, ma già dotato di un valore terapeutico, già capace di illuminare il senso di certe esperienze e di trasformare la posizione del paziente rispetto a quelle esperienze.
Quando Jaspers scrive per Springer la Psicopatologia generale non ha ancora trent’anni. Intende fornire una tassonomia dei fenomeni psichici abnormi (delirio, ossessioni, allucinazioni, fobie) e insieme descriverli, mettendo a fuoco soprattutto l’esperienza soggettiva dei pazienti. Come considerare oggi questo approccio metodologico?
La tassonomia è forse l’eredità più ottocentesca del percorso jaspersiano. Spesso Jaspers prende di peso una categoria nosorafica, e ne fa la fenomenologia. È qualcosa di poco fenomenologico, proprio perché il primo gesto della fenomenologia consiste o dovrebbe consistere nel mettere tra parentesi le categorie, le astrazioni, le tassonomie teoriche. Dal punto di vista puramente fenomenologico, l’idea stessa di una nosografia, di una psicopatologia organizzata nosograficamente, è molto discutibile, molto difficilmente giustificabile. Ma è anche qualcosa di comprensibile, dato che il lavoro psicopatologico di Jaspers va appunto pensato all’interno della clinica, e la clinica, come ogni pratica umana, ha bisogno di punti di riferimento, di classificazioni, di schematizzazioni che possano orientare dei modelli d’intervento. Ripartire da zero ad ogni paziente è ovviamente un ideale meraviglioso, ma non ci si può nascondere la realtà delle cose, la necessità di una qualche sistemazione delle osservazioni possibili, di una qualche griglia che consenta al clinico di orientarsi, di fare delle scelte, di prendere delle decisioni. Dietro a questo dilemma sta ovviamente un problema ancora più vasto, come quello dello statuto della medicina e dello statuto della salute che la medicina persegue, non solo della salute cosiddetta mentale ma anche della salute cosiddetta fisica. La medicina è un sapere ibrido, come tutti, come la filosofia stessa, come la fenomenologia stessa, per esempio. Ha aspetti teorici, esigenze terapeutiche, componenti culturali e sociali, vincoli economici a volte pesantissimi. Non si può ignorare tutto questo, non si può dimenticare che anche i concetti di malattia e di salute sono degli ibridi, contengono e ricompongono aspetti diversi, fanno attenzione a variabili e osservabili a volte inconfrontabili, che tuttavia fanno sistema…
Su quali fenomeni psichici in particolare l’impostazione jaspersiana basata su di una “comprensione genetica” getta ancor oggi maggior luce?
Credo che l’ambito delle psicosi sia l’ambito che lo strumento della comprensione jaspersiana può illuminare meglio e può affrontare in modo più fondato ed efficace terapeuticamente. Comprendere spesso significa dialogare, restituire all’altro qualcosa di s, farsi restituire dall’altro qualcosa che ci appartiene. Comprendere significa riconoscersi e farsi riconoscere, vedere nell’altro uno specchio possibile e fare all’altro da specchio. In un ambito come quello delle nevrosi questo approccio può avere un significato iniziale, propedeutico, può attivare un primo passo nella cura, ma difficilmente può esaurire in s l’ambito della cura stessa. Può anzi disperderne il cammino, al limite può ostacolarlo. Nel quadro delle psicosi, invece, questa funzione del dialogo, del rinvio e dello scambio di immagini, del rispecchiamento tra l’uno e l’altro, possono avere una funzione decisiva, possono portare situazioni di frammentazione a una possibile unità, possono suggerire la vicinanza di un altro che resta altrimenti inavvicinabile, possono riannodare le fila di un’esperienza che non troverebbe altrimenti una configurazione abitabile…
In Jaspers l’esistenza è, insieme, relazione a s e relazione all’essere. Ha senso ancora, ed in che termini, questa sua impostazione esistenzialistica?
Forse bisogna intendersi sulla parola “essere”. Quando diciamo che relazione a s e relazione all’essere non sono disgiunte, diciamo che la relazione a s passa attraverso qualcosa che non è il s, diciamo che il soggetto non è un punto di partenza ma un effetto, un risultato che emerge a partire da una rete di eventi e componenti che lo precedono, diciamo che alle spalle del soggetto giocano strutture e potenze nelle quali il soggetto è gettato come paglia nel vento. Se l’essere è tutto questo, e tanto Heidegger quanto Jaspers, quanto Lacan o Bion, in modi diversissimi, hanno in fondo affermato qualcosa di simile, allora l’essere è la sola cosa di cui le scienze cosiddette umane devono preoccuparsi. Preoccuparsi del soggetto, preoccuparsi dell’uomo, preoccuparsi del s, per le scienze umane, e per quelle scienze umane che sono le scienze e i saperi PSI (ndr: “PSI” è il modo corrente di indicare tutta la galassia delle discipline che si occupano dello studio e della cura della psychè: psicologia, psichiatria, psicoanalisi eccetera), sarebbe un’ingenuità, sarebbe un’abdicazione al loro compito. Devono preoccuparsi della provenienza del soggetto, che è anche il senso del soggetto, la direzione del soggetto, la destinazione del soggetto. Senza la domanda “da dove?” non c’è alcuna risposta sul “verso dove?” del soggetto.