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Il primo vero libro sulla storia della nostra Sanità

Il karma di Francesco Taroni è la storia. Lo sospettavo da tempo, ma ne ho avuto la certezza dopo aver letto questo libro. Che è , non da un medico che si occupa di storia della medicina. Qual è la differenza? È il riferimento al contesto generale, alla storia politica e sociale dell’Italia del Novecento, operazione che Taroni svolge egregiamente, dimostrando una capacità notevole nell’uso delle fonti e nel ricorso ad una amplissima bibliografia nazionale e internazionale.

Politiche sanitarie in ItaliaD’altra parte tutto ciò è annunciato come programma all’inizio del prologo, quando Taroni dichiara di “voler ricostruire un resoconto plausibile del profilo politico e intellettuale delle politiche sanitarie in Italia dal secondo dopoguerra agli inizi del nuovo secolo”, dove le parole chiave sono i due aggettivi politico e intellettuale. Potremmo dire, con un linguaggio in voga tra gli storici, che Taroni si cimenta in una storia culturale della Sanità italiana, seppure inserita in una solidissima cornice istituzionale. N solo storia delle istituzioni, n solo sociologia sanitaria, n tanto meno solo storia contemporanea: piuttosto – coniando una nuova categoria storiografica – una storia culturale sanitaria (da non confondersi, badate bene, con l’antropologia medica).

Date queste premesse si può affermare che questo sia il primo vero libro sulla storia della Sanità italiana nella seconda metà del Novecento e oltre. Altri lavori sono stati fatti, soprattutto da sociologi (gli storici che si occupano di temi sanitari nell’Italia repubblicana sono quasi inesistenti, uno o due al massimo). Ma complessivamente questo periodo della storia sanitaria è piuttosto trascurato. Dovremmo chiederci come mai in Gran Bretagna il National Health Service ha il suo storico ufficiale, Charles Webster, mentre prestigiose case editrici come la Cambridge U.P. hanno tenuto aperte per molti anni intere collane dedicate alla storia della medicina.
Verrebbe da dire che in Italia, al contrario, la Sanità contemporanea non fa parte dell’agenda storica, non è riconosciuta come un tema centrale per comprendere la società italiana e le sue trasformazioni, ma resta piuttosto appannaggio di discipline specializzate, quali l’economia, il diritto, oltre che la sociologia.

Il merito di Taroni sta nell’aver realizzato una storia delle politiche sanitarie italiane embedded nella società italiana, alla cui storia egli si rifà costantemente cercando le spiegazioni delle scelte (o delle non scelte) non solo all’interno della sanità, ma anche (a volte soprattutto) nella società inglobante, alla base e nelle classi dirigenti. Non solo, ma di aver arricchito questa storia con particolari finora sconosciuti o quasi, quali ad esempio la storia dei sanatori (su cui tornerò), la ricezione del rapporto Beveridge nel nostro paese. Da sottolineare al riguardo l’opinione di Luigi Einaudi che, da liberista puro qual’era, lo respinse nei suoi due punti fondamentali: l’assicurazione sociale contro la disoccupazione involontaria e l’assistenza sanitaria, che nell’intento di Beveridge era il simbolo del nuovo welfare universalistico ed egualitario.

Letto in questa chiave, il volume offre una serie di spunti di grande interesse per comprendere meglio la storia dell’Italia repubblicana (ma anche di quella fascista e pre-fascista ), a conferma dell’assunto in base al quale la storia della Sanità è la storia della società, n può essere compresa senza di essa.
Dalla sua lettura scaturisce prepotente l’immagine di un’italianità irriducibile della nostra Sanità contemporanea. Detto così sembra un truismo. Perch mai la Sanità italiana dovrebbe essere, che so, tedesca o inglese?
Intendo per italianità quell’insieme di caratteri che hanno contraddistinto in modo non equivocabile la nostra storia, in questo caso nel Novecento e che non sono rinvenibili o non lo sono in egual misura in altri paesi.
Fino al 1978, anno di creazione del SSN, la storia della Sanità italiana ( e non solo quella) è stata determinata dalla storia degli enti pubblici. Come ha dimostrato la mia amica Francesca Sofia, storica delle istituzioni, fin dall’Unità l’Italia è cresciuta all’ombra degli enti pubblici, a cui lo Stato delegò fin da allora parte delle sue funzioni. Gli enti pubblici sono proliferati col passare degli anni in modo esponenziale e costituiscono una dei fattori strutturali e di lungo periodo quanto meno fino al 1978, anno in cui – da notare la coincidenza delle date – fu decretato il loro (almeno formale) scioglimento. Gli enti pubblici sono anche uno dei più importanti elementi di continuità tra il fascismo e il post-fascismo. Il fascismo ne fece uno dei suoi punti di forza, imprimendo loro un carattere che sarebbe transitato indenne nell’Italia repubblicana: l’uso di un ente pubblico a tutela d’interessi corporativi/privati che agiscono in funzione della riproduzione dello stesso ente, più che del suo funzionamento improntato a una razionalità economica e sociale.

Emblematica al riguardo è la stupefacente vicenda dei sanatori, introdotti in Italia nel 1929 e proliferati dopo la seconda guerra mondiale, fino a raggiungere verso la fine degli anni 60 oltre 80.000 posti letto a fronte di una carenza mostruosa della rete ospedaliera generale. La spiegazione di questo mistero sta nella parola INPS, il potentissimo ente assicurativo creato dal fascismo che gestiva in modo diretto o indiretto i sanatori e che fece di queste strutture una sorta di stato nello stato mentre negli altri paesi, a partire dagli USA venivano dismessi dalla metà degli anni 50.
I sanatori italiani sono un tipico esempio non solo di “inerzia istituzionale” come dice Taroni, ma di strapotere degli enti statali e parastatali e della difesa di molteplici interessi che stavano sotto questa rete sanitaria parallela e ormai obsoleta dal punto di vista clinico.

Cosa altro è la storia delle mutue assicurative che, transitate dal fascismo alla repubblica, hanno gestito la Sanità italiana fino agli anni 70, se non una storia di enti pubblici divenuti potenti luoghi di potere politico (una storia ancora da scrivere nei dettagli) ma gestiti all’insegna della più totale irrazionalità economica? A tale riguardo vorrei infatti sottolineare che il problema non furono tanto le mutue, ma la loro cattiva gestione, a provocare la crisi che porterà alla nascita tardiva (dunque anomala) del SSN in Italia. La Francia e la Germania ancora oggi hanno un sistema sanitario che ha assunto negli anni un carattere universalistico, ma che si basa sulle mutue e che per molti aspetti hanno funzionato bene. Fu dunque la crisi della gestione all’italiana degli enti pubblici (anche gli ospedali, ufficialmente ancora congregazioni di carità fino al 1968, lo erano), a mettere in crisi il sistema. Sistema che cambierà radicalmente, però, grazie all’entrata in scena di un nuovo ente pubblico: le Regioni.

Il secondo spunto di riflessione che scaturisce dalla lettura del libro di Taroni riguarda l’incapacità strutturale dei ceti dirigenti, sanitari e politici, di decidere. Il caso della vaccinazione antipolio è l’esempio più drammatico di questo deficit decisionale, ma tutta la vicenda della riforma sanitaria –a partire dal piano Giolitti del 1964 fino al 1978 – può essere letta come il perpetuarsi di questa capacità/volontà delle classi dirigenti di riconoscere la necessità del cambiamento e di farsene carico.

Mi ha molto colpito un particolare che Taroni mette in luce, ossia il fatto che dopo dieci e più anni di battaglie civili per la nascita del SSN (si può parlare di un vero e proprio movimento per la riforma) i tempi di attesa per la promulgazione della legge si protrassero nel tempo, in un lavoro parlamentare che si trascinò stancamente per quattro anni (la legge Vittorino Colombo sancisce lo scioglimento delle mutue il 30 giugno 1977, data che non fu rispettata) e che alla fine la legge istitutiva del SSN passò in modo affrettato e distratto e nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica. Come a dire che la riforma alla fine ci fu, ma nacque svuotata a causa di un altro deficit decisionale.

Vorrei accennare in conclusione a un ultimo tema, che il libro chiarisce in modo esemplare e che stimola molte riflessioni anche sul presente. Come il sistema feudale, anche quello mutualistico è caduto per una pluralità di fattori, interni ed esterni, che si sono combinati tra di loro:

  1. la crisi finanziaria delle mutue ( con la necessità di un loro rifinanziariamento da parte dello stato),
  2. la riforma degli ospedali iniziata nel 1968, con l’aumento previsto dei loro costi gestionali;
  3. la crisi economica internazionale,
  4. la nascita delle regioni, con l’attribuzione della Sanità alla loro competenza,
  5. il movimento per la riforma figlio del 68 e della carica ideale di quegli anni, che individua nell’universalizzazione dell’assistenza un contenuto egualitario e di democrazia eccezionale;
  6. ma anche un uso del riformismo in funzione antieversiva.

Questo elenco significa che in quel contesto, dominato da una crisi internazionale serissima (la crisi petrolifera) con drammatici riflessi nazionali, alla crisi interna del sistema sanitario si rispose (sia pure con un allungamento dei tempi che, come spiega Taroni, ebbe conseguenze serie sul profilo della riforma) non con dei tagli ma guardando al futuro, con un grande progetto.

I capitoli finali del libro riguardano l’attuazione di questo progetto, i suoi mutamenti interni, i suoi fallimenti. A me piace concludere pensando che nonostante l’italianità congenita, il deficit decisionale e tutto il resto, il 1978 è stato un momento ( forse l’ultimo?) in cui si è risposto ad una crisi investendo in democrazia.

24 aprile 2012

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