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Il soggetto, unica onda inconfrontabile

Guardando ai fatti, viene da chiedersi se essi abbiano senso. E non solo per noi. Se insomma il significato di un fatto sia riconducibile a dati “oggettivi”. Se la crisi economica, le complesse vicende socio-politiche, le nostre stesse quotidiane esperienze personali abbiano un senso. A volte sembrano spiegabili, riconducibili ad un insieme di ragioni, altre appaiono oscure e incomprensibili. Soprattutto quando l’accaduto è abnorme, quando siamo costretti a chiederci che senso abbia l’uccisione di innocenti, o lo sfruttamento di minori, o il dolore di una malattia. È allora che abbiamo la sensazione che il senso dipenda molto anche dalla nostra comprensione di quel particolare avvenimento, dai valori e dai parametri coi quali lo valutiamo. Il significato, insomma, non sembra iscritto nel fatto, ma frutto del nostro disporci nei suoi confronti. Il farsi del senso dipende da noi.

Psicopatologia generaleNon sempre è stato così. Dobbiamo a una fase particolare della grande cultura europea di inizio Novecento (a Dilthey, a Max Weber, a Husserl) l’aver reintrodotto il soggetto e le sue prerogative nella considerazione dei fatti e degli eventi. Ed a Karl Jaspers.

È storia di cent’anni fa. Nel 1913, esattamente un secolo fa, Jaspers pubblica, trentenne, la Psicopatologia generale, un testo fondamentale per la psichiatria a venire. Con quest’opera poderosa chiude la sua carriera di medico e di psichiatra e inizia formalmente quella di filosofo. Rifondando su basi metodologicamente nuove la psicopatologia: Jaspers infatti non cerca tanto le “cause” della follia, ma appunto il suo senso per il singolo individuo che ne è affetto. Un senso che in qualche misura può esser compreso, più che spiegato, all’interno di una cornice opaca, eppure luminosa, che è l’enigma dell’umano.

La vicenda della psichiatria moderna si apre dunque con due grandi gesti di rinnovamento. Da un lato, appunto, l’indirizzo fenomenologico-esistenziale di Jaspers, dall’altro l’avventura della psicoanalisi. Pur distinte, li accomuna l’idea che il sintomo sia un simbolo, che il sintomo voglia dire qualcosa. E che il terapeuta, di fronte al sintomo, debba porsi come un interprete, nota Federico Leoni nel ricco saggio introduttivo alla nuova, accresciuta edizione italiana della Psicopatologia generale (Il Pensiero Scientifico Editore, traduzione della edizione definitiva del 1946). Secondo Jaspers, Freud confiderebbe troppo nell’interpretazione, svalutando così una comprensione “genetica” dello psichico basata sull’immedesimazione nei vissuti di coscienza dell’altro. È il medico a doversi far filosofo, afferma Jaspers riprendendo la ben nota espressione di Ippocrate (Iatros philosophos isotheos): il medico che si fa filosofo è pari a un dio.

Occorre scontare in partenza il “pregiudizio diagnostico”, il rischio di assolutizzare assunti pur corretti. L’errore in cui lo psichiatra può incorrere consiste appunto nell’assolutizzare lo schema generale da cui muove. Sia che si pensi che l’anima sia coscienza e null’altro, sia che invece si ritenga che il corpo sia tutto e l’anima solo un epifenomeno dei processi cerebrali, oppure che il soggetto sia una stazione di passaggio delle relazioni ereditarie. Attenzione, “non solo l’assolutizzazione della totalità [dell’umano] è falsa, ma anche quella che crede di aver colto la vera totalità dell’uomo nell’insieme di tutte le totalità” (1).

Richiamando Nicolò da Cusa, Jaspers ritiene al fondo che l’individuo possa esser spiegato solo da se stesso, non è afferrabile nell’insieme, individuum est ineffabile: “Nonostante sia incastrato come essere biologico entro rapporti ereditari e come essere psicologico nella comunità e nella tradizione spirituale […], il singolo non è semplice passaggio per questi, non è mai risolvibile, ma rimane s stesso, unico, in s, in una concezione storica come pienezza del presente, come unica onda inconfrontabile tra le infinite onde del mare e nello stesso tempo specchio del tutto” (2).

Per Jaspers, diviene allora un fattore rilevante nel decidere dell’efficacia stessa di un trattamento la personalità dello psichiatra ed il suo orientamento “filosofico” ed insieme la singolarità del paziente, per quanto più o meno riconducibile ad una certa qual “tipicità”. Ogni caso singolo ha certo bisogno di un approccio oggettivo dello psicoterapeuta che ne valuti i sintomi e li combini in una diagnosi nosologica, ma questa non può prescindere dai dettagli delle esperienze soggettive del paziente e dalle sue idee riguardo la genesi dei propri sintomi e problemi. Non gli sembra produttiva una psicopatologia che ricerchi topologicamente le cause del disagio psichico, specie di quella situazione-limite che è il delirio primario, vera cartina di tornasole della psichiatria.

Siamo nella situazione psicopatologica in cui non è affatto detto ci sia una qualche debolezza dell’intelligenza. Anzi: in chi delira, “la critica non viene distrutta, essa si pone al servizio del delirio. Il malato pensa, esamina le ragioni e gli argomenti opposti, come farebbe se fosse sano” (3). Nelle idee autenticamente deliranti, infatti, l’errore sta nel materiale, mentre il pensiero formale è completamente intatto: il ragionamento non fa una piega, anche se – per il soggetto che delira – le cose, improvvisamente, significano tutt’altro.

L’autentico delirio sarebbe quindi caratterizzato dalla sua intrinseca incomprensibilità e, di conseguenza, dalla nostra impossibilità di interpretarlo analogicamente sulla base dei nostri normali vissuti.
Il delirio primario appare a Jaspers un vero problema del pensiero, proprio perché chi delira può non presentare alcun disturbo della percezione. Jaspers si discostava così dall’indirizzo di Kräpelin, secondo il quale si dava comunque un’origine organica o psicogena del delirio. Dove si radica dunque la patologia? L’approccio fenomenologico gli consente di descriverla legandola alla struttura stessa della coscienza delirante. La follia risulterebbe disumanizzata, viceversa, se ricondotta ad un disturbo organico-somatico. Tuttavia, nel delirio risulta un residuo d’incomprensibilità, di inaccessibilità. Di nuovo si affacciano i limiti della psicoanalisi, gli stessi – secondo Jaspers – di ogni psicologia comprensiva che non riconosca i propri limiti: “la psicoanalisi è restata cieca dinnanzi a questi limiti. Essa voleva comprendere tutto” (4).

Jaspers ritiene che il delirio sia legato ad un errore di giudizio, che nasca cioè da un incontro sbagliato tra la coscienza e la realtà. La tragedia della malattia psichica consiste nel fatto che il delirio personale, essendo incomprensibile, impedisce ogni comunicazione intersoggettiva (5). Rinchiude chi ne soffre nella solitudine più atroce, rivelandosi come il disturbo per eccellenza della comunicazione. Chi delira, non riesce a comunicare la propria esperienza di vita in un mondo condiviso.

Jaspers non è solo nel ritenere il delirio, per definizione, inintellegibile. Dopo di lui altri, come Kurt Schneider e Michel Foucault, hanno sostenuto, con argomenti assai diversi, l’indecifrabilità del delirio. La questione ha attraversato l’intera storia della psichiatria del Novecento, contrapponendone i protagonisti. Alcuni, infatti, hanno variamente confutato il dogma dell’ininterpretabilità del delirio, come Binswanger o Eugenio Borgna.

In ogni caso, secondo Jaspers, si dovrebbe sempre mirare a realizzare una relazione profonda tra il mondo del paziente e chi ne ha cura, in modo da far tesoro dei suoi pensieri e sentimenti.
La fenomenologia trascendentale di Husserl consente appunto a Jaspers di valorizzare gli aspetti ermeneutici e dialettici della pratica psichiatrica clinica quotidiana, basata su intuizioni, e insieme di mettere a profitto il dato intuitivo all’interno di cornici teoretiche altamente specifiche.

Se tuttavia resta un che di incomprensibile, è anche vero che “lo spirito non può ammalarsi”.
Qui emerge un tratto, diciamo così, ottimistico del pensiero jaspersiano. Dove non arriva la comprensione dello psicopatologo, può arrivare un’appropriazione comprensiva del filosofo, in grado di cogliere l’esperienza vitale anche di soggetti schizofrenici. Per esempio, attraverso la loro elaborazione creativa. Jaspers fa gli esempi illustri di van Gogh, Hölderlin, Kandinsky e Strindberg.

Per questo la Psicopatologia generale non è soltanto la sistematizzazione geniale delle unità elementari dell’esperienza psicologica abnorme, la definizione di nozioni-chiave come quelle di forma, contenuto, allucinazione e delirio. Il testo è anche una grande lezione di metodo, una riflessione capace di coinvolgere e appassionare generazioni di psichiatri e, insieme, di pensatori come Hannah Arendt, Paul Ricoeur, Martin Heidegger, Hans-Georg Gadamer. E di suscitare interesse ed emozioni anche in chi, a distanza di cent’anni, si accosta a questa prosa rigorosa e raffinata, antidoto prezioso ad ogni tentazione riduzionistica sia della psichiatria, sia del pensiero filosofico.

Note

  1. Karl Jaspers (1946), Psicopatologia generale, edizione italiana a cura di Romolo Priori, saggi introduttivi di Federico Leoni e Umberto Galimberti, Il Pensiero Scientifico Editore, VII ristampa, Roma 2012, pag. 800.
  2. Ivi, pag. 803.
  3. Ivi, pag. 105.
  4. Ivi, pag. 392.
  5. Diversa è la questione, delicata e complessa dei cosiddetti deliri collettivi. Anche la credenza religiosa ne è investita. Come ha colto con acutezza Remo Bodei, «si ha fede nell’assurdo perché l’assurdo ha, in fondo, una sua “verità”, che, appunto, “non è materiale, ma storica”. Anche quando credo di credere quia absurdum, in realtà credo quia non absurdum» (Remo Bodei, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Editori Laterza, Bari-Roma 2000, pagg. 48-9).

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