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Impariamo a “misurarci”
Impariamo a "misurarci" |
Eugenio Picano, Direttore Istituto di fisiologia clinica del CNR, Pisa. Pubblicato su Va’ Pensiero n° 568. |
![]() Insomma, oggi ti misurano – e ti misuri – sulla base dell’Impact factor e, meglio ancora, dell’indice H. Esiste persino, manifestata negli ultimi anni, una variante degli indici bibliometrici dal volto umano: il gaming editoriale per cui, ad esempio, se sei direttore di un giornale obblighi, con la pistola dell’accettazione puntata alla loro tempia, gli increduli autori a citare letteratura non attinente pubblicata sul tuo giornale oppure – per i più creativi – pubblicata da te. Così sale nel primo caso l’Impact factor del tuo giornale (equivale a rubare per il partito), e nel secondo caso il tuo indice H (equivale a rubacchiare qualche citazione per s). Anche gli indici bibliometrici più freddi si riscaldano, a contatto con il fattore umano. Insomma, oggi anche i malfattori più incalliti devono muoversi per tempo e costruirsi un Impact factor e un indice H, misure a cui dobbiamo gratitudine, tutto sommato. Perch sono uno strumento rozzo e imperfetto per misurare la produzione scientifica; e però rappresentano l’unica alternativa possibile alla “produzione-monnezza” (trash publications), che mettendo assieme abstract su riviste italiane, articolacci a invito su giornali in dialetto, capitoletti di libri autofinanziati, ha consentito per decenni a molti autorevoli membri della comunità scientifica di ostentare pomposamente una produzione cartacea a 3 o 4 cifre tutta scritta sull’acqua: centinaia o migliaia di articoli di cui tipicamente 4 o 5 adornati di un qualche Impact factor. L’Impact factor punta il dito su questi curriculum drogati e mostra che il ricercatore è nudo: è perciò un fattore di moralizzazione e di chiarezza a cui dobbiamo gratitudine. Nel mondo dell’autoreferenzialità, è stato costringere il ricercatore a guardarsi allo specchio. Quindi, a te che vuoi sapere tutto sulla stechiometria bibliografica, e però fatichi e un po’ ti annoi – come me – ad orientarti tra indice H, Impact factor normalizzato, Immediacy index, Eigenfactor score e compagnia bella, il misericordioso libretto di Ombretta Perfetti – nella accattivante veste tipografica di block-notes con testo meravigliosamente conciso, immagini chiare e sontuosa impaginazione – ci viene in soccorso. La bibliometria quantitativa non avrà più segreti, e – se il tuo H index non ti soddisfa appieno, se il tuo Impact factor è giudicato insufficiente dal tuo partner di progetto – potrai almeno dedicarti a tempo pieno al voyerismo bibliometrico, e misurare l’impact factor altrui, in quella immensa casa di vetro che è la bibliometria al tempo della rivoluzione informatica. Poi, naturalmente, di tutti i ludi cartacei (o elettronici) delle pubblicazioni, alla fine della giornata del ricercatore rimane ben poco per cui veramente sia valsa la pena consumare lavoro, tempo, sacrificio e intelligenza: uno o due lavori per ogni vita di ricercatore, quando va bene, e al massimo una decina di contributi davvero significativi (quando va benissimo). Il grande biochimico Erwin Chargaff ha scritto che “più di un eminente scienziato è molto occupato e pubblica molto; di quello che pubblica la metà è robaccia, anche se non è sempre chiaro quale metà”. Non ve lo dirà di certo l’Impact factor, che misura allo stesso modo il grano e il loglio, che poi penserà il tempo a separare. Ma torniamo all’aureo libretto, che un messaggio lo lancia, bello chiaro. Ricercatori di tutte le età, dilettanti e professionisti, medici e biologi, affermati e in erba, mettiamocelo bene in testa: il tempo dell’autoreferenzialità e della valutazione “Teste me ipso” è finita per sempre. Impariamo a misurarci: gli altri lo stanno già facendo per noi.
2 maggio 2013 |