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Kaiser Permanente: il volto buono della societa americana

copertina del libro le sfide della sanita americanaNonostante i programmi televisivi tentino di farci pensare il contrario, l’assistenza sanitaria Usa è tutt’altro che un modello. Anzi, difficile far di peggio. Primo, la sua spesa è la più alta nel mondo, sia come spesa pro capite (7421 dollari nel 2007) sia come percentuale del PIL (16,2%, sempre nel 2007) e cresce a ritmi impressionanti (più di 3 volte quella del 1990, più di 8 volte quella del 1980. Secondo, anche se la sanità costa, per alcuni è solo un guadagno perché – si leggeva sul sito della Casa Bianca nel corso del recente dibattito sulla riforma sanitaria – nel 2009 “quando le famiglie hanno dovuto fare i conti con la recessione e con l’aumento dei costi dell’assistenza sanitaria, le 5 più grandi compagnie assicurative, Wellpoint, Unitedhealth Group, Cigna, Aetna e Humana hanno accumulato profitti. con un incremento del 56% rispetto al 2008”. Terzo, l’assistenza Usa non riesce neanche ad assistere tutti quanti vivono all’ombra di Stars and Stripes sicch – osservava anni fa il New England Journal of Medicine – 45 milioni di cittadini non sono abbastanza ricchi da potersi assicurare, nè abbastanza poveri da potersi aprire le porte del sistema di tutela sanitaria statale. Una situazione con conseguenze disastrose considerato che, secondo un’indagine del 2006, tre adulti non assicurati su cinque non ricevono le cure necessarie a causa del loro costo e il 59% dei portatori di malattie croniche – diabete, asma, ipertensione – non si procura le medicine prescritte per lo stesso motivo.

Ma perché tutto questo? Anni fa la rivista Health Affairs cercò di dare una risposta alla domanda “Perché la sanità americana è così cara?” rispondendo – sempre nel titolo – “It’s the prices, stupid.” Non era una tesi originale e la condividevano in molti anche facendo considerazioni poco consolanti per le spinte etiche dell’assistenza Usa. “Il potere di mercato – scriveva per esempio Thomas Bodernheimer sulle pagine di Annals of Internal Medicine – si misura col grado d’influenza che ha un’organizzazione sulle altre: in termini economici è la capacità di alzare il prezzo senza perdere i clienti”. Non sembra un capoverso del Giuramento d’Ippocrate, ma è così.

“Negli Stati Uniti, i medici e gli ospedali hanno storicamente conquistato questo potere di mercato, imponendo (per visite mediche, procedure chirurgiche e giornate di degenza) guadagni di gran lunga superiori a quelle di altri Paesi”. E’ quanto sostiene Gavino Maciocco nelle pagine di Le sfide della sanità americana. Un libro redatto con Piero Salvadori e Paolo Tedeschi che racconta due possibili risposte al problema. Sia quella di Obama, trovatosi di fronte a compagnie d’assicurazione, presunte assicurazioni di cittadini, ospedali, medici e un’opinione pubblica gelosa dei propri diritti, sia la risposta di un gruppo di peones riformulata negli anni, ma redatta la prima volta alla fine degli anni Settanta.

Il libro è organizzato bene, in due parti, la prima – “Il sistema sanitario americano e la riforma di Obama” – e la seconda – “Kaiser permanente, l’altra faccia della sanità americana”. La prima in 8 capitoli, la seconda in 9.

Sì, le pagine del libro spiegano anche i dettagli della riforma presidenziale (la Patient Protection and Affordable Care Act), rivoluzionaria perché avrebbe assicurato a tutti (e non è vero) un’assistenza sanitaria tentata invano da altri Presidenti. Ma la prima intenzione era far conoscere il messaggio di questi peones, di questi 8 milioni e mezzo affiliati a Kaiser Permanente.

Nel Paese con l’assistenza sanitaria organizzata sul principio che occorre prendersi cura innanzitutto di quanti pagano senza chieder nulla o quasi, cioè dei sani, KP è cresciuto con un’idea tutta diversa dell’assistenza sanitaria: la salute va promossa e quando perde colpi è necessario farsi carico al meglio del malato, non fermarsi a curare la malattia.
La filosofia di questo modello alternativo di assistenza – scrivono gli autori – prevede tappe diverse:

  • “l’approccio proattivo (in grado cioè di prevedere o prevenire eventuali complicazioni e aggravamenti della malattia);
  • il coinvolgimento dei pazienti, delle famiglie, delle comunità;
  • la forte infrazione tra cure primarie e secondarie;
  • l’utilizzazione di percorsi assistenziali e di linee guida evidence-based
  • la motivazioni dei professionisti anche attraverso incentivi adeguati”.

Lo standard Kaiser Permanente non mancò di suscitare commenti e osservazioni, o studi di raffronto con modelli nazionali anche diversi da quello statunitense. Un commento condito al vetriolo per l’assistenza inglese comparve, per esempio, nel 2002 sul British Medical Journal. “La popolare idea che il NHS è efficiente e che la scarsa performance di certe aree è giustificata dai bassi investimenti non è giustificata dalla nostra ricerca. KP ottiene prestazioni abbastanza migliori a un costo approssimativamente simile a quello del NHS grazie a una forte integrazione all’interno del sistema, a un’efficiente gestione degli ospedali, ai benefici della competizione e a maggiori investimenti nell’information technology”.

E alla stessa conclusione giunse un altro articolo l’anno successivo, “Hospital bed utilization in the NHS, Kaiser Permanente, and the US Medicare programme: analysisi of routine data.” E anche qui si tornavano a sottolineare alcuni punti del successo di KP: meno medici e più infermieri, meno ricoveri, degenze più corte.

Il titolo del libro immaginato all’inizio doveva essere “Il volto buono della sanità americana, Kaiser Permanente”. Ma l’impressione che ne ha tratto chi scrive è che questo degli autori fosse in ogni caso un doppio messaggio. Non solo far la storia e spiegare come funziona KP e perché le sue particolarità e il suo successo, ma anche concludere se sia davvero dell’altro mondo questo modello di assistenza. Potremmo far qualcosa di simile nel nostro Paese? Perchè dargli torto.

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