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La comunicazione è già terapia

Una storia vera. L’autrice arriva in un Pronto Soccorso per un dolore addominale acuto. Il medico vorrebbe tastarle la pancia, la paziente si rifiuta per il troppo dolore: “Mi fa troppo male”, “Se non le va poteva, starsene a casa”. Inizia così il viaggio di Lucia Fontanella in ospedale, dove si tratterrà a lungo e dovrà anche tornarci per un secondo intervento chirurgico (La comunicazione diseguale. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2010). L’autrice, insegnante di lingua italiana all’università di Torino, annota, riflette, discute e descrive cos’è la comunicazione diseguale. Diseguale perché in ospedale le persone non hanno lo stesso potere: i malati sono in una oggettiva condizione di svantaggio. L’up/down della comunicazione: “Tu (il medico) puoi muoverti, e mi giri attorno guardandomi dall’alto, e io sto qua distesa, e ti guardo dal basso in alto, come il più derelitto dei bambini. Sono spaventato, confuso. Puoi farmi ciò che vuoi”. E il discorso si allarga – “Di chi è l’ospedale?” – l’assistenza pubblica non è gratuita, il SSN è finanziato con le imposte pagata dai cittadini, medici e infermieri vi hanno il luogo di lavoro, mentre si atteggiano da proprietari, che consentono per benevolenza ai malati di entrarvi. “È come le montagne per i montanari o il mare per i pescatori, non è roba loro”. L’ospedale, dopo la rivoluzione francese, esiste per la volontà di una collettività che crede nell’organizzazione sociale e la finanzia. “io, malato, non sono forse la vostra ragione d’essere, caro dottore e caro infermiere?” Spesso i malati non fanno valere i loro diritti perché “la prudenza guida per lo più il comportamento del malato in ospedale, il timore di ritorsioni che hanno quasi tutti i malati…”. Siamo nel terzo millenio, ci riempiamo la bocca di humanities, nei convegni, e lasciamo che un cittadino si senta così umiliato?!?.

La comunicazione disegualeDopo le scoperte delle neuroscienze dell’ultimo ventennio, non ci può essere un medico che non sia convinto che la comunicazione è già terapia. Bisogna comunicare, per farsi capire, per condividere le scelte (il consenso informato non è un foglio prestampato da firmare), per indicare comportamenti, per ottenere compliance, per rassicurare (conoscere la diagnosi fa uscire dall’angoscia dell’ignoto). La comunicazione muta la realtà. Essere capiti è fondamentale, invece “si ha l’abitudine di usare parole che pochi, in Italia, sentono abitualmente… è possibile parlare in modo chiaro e comprensibile, usando parole molto conosciute, molto usate. Occorre sapere che è bene usare frasi brevi, e rinunciare ad argomentare in modo troppo articolato”. Solo nelle situazioni di estrema emergenza, quando la priorità è l’intervento rapido ed efficace (situazioni in cui di salito il malato è semincosciente) viene meno l’utilità della comunicazione. Un medico dovrebbe unire alla competenza specifica della professione, la capacità di controllare sempre il modo in cui lavora. Il sapere del medico è anche un saper essere. Dice Lucia Fontanella: “non ci si può fermare alla cura di una patologia, dimenticandosi di chi ce l’ha” Sembra una ovvietà, ma talora succubi di un’orgia ipertecnologica, ci passiamo sopra. Negazione della comunicazione, cioè di una buona pratica professionale (la good practice che ci piace ostentare), è addurre sempre la fretta e concedere qualche frase di volata nei corridoi. Ma una parte importante della comunicazione è quella non verbale: “… avrete notato quante strategie sanno usare i medici e gli infermieri per non incrociare lo sguardo dei pazienti. Hanno paura di essere ‘arpionati’, hanno paura di una domanda, hanno paura di incontrare le persone che sono i malati … avere gli occhi alla stessa altezza quando ci si parla è uno degli elementi che danno l’immediata sensazione di parità”. Un umano quando si ammala entra in uno stato di regressione, e si affida a chi lo deve curare: questa condizione per noi medici significa una precisa assunzione di responsabilità e attenzione per restituire dignità alla persona evitando di infantilizzare vocaboli e cure (una punturina, un taglietto ecc). Siamo consapevoli che è nostro compito prenderci cura dell’altro, ma per assolvere questo compito dobbiamo assolutamente instaurare una relazione adeguata.

L’autrice conclude: “L’informazione è indispensabile. La gestione dell’informazione deve appartenere all’intero sistema. E deve esserci qualcuno che controlla e sancisce”. Come tutte le attività professionali deve avere un controllo di qualità, progettato, programmato, verificato in sedi e momenti particolari.

La comunicazione si può imparare e questo libretto (dico libretto solo perché è di piccolo formato, sta nella tasca, ma ha il valore di un librone) in sole 132 pagine di testo è già uno strumento di formazione. Da leggere imperdibilmente. E da far leggere a studenti e a medici già formati.

La medicina narrata dai non medici ha un ruolo nella crescita dell’ascolto e dell’empatia. Racconta come gli altri ti vedono, ma non te lo dicono, quando si siedono dall’altra parte della scrivania.

Grazie professoressa per averlo scritto.

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