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La medicina della persona
Il mestiere del recensore e del critico è, per sua natura, quello di uno scettico, e lo scettico non è né bravo né buono ma, per definizione, sa di essere, o di dover essere, brutto e cattivo. Nella letteratura francese dell’ottocento, Sainte-Beuve è l’esempio più illustre del critico scettico (tra l’altro era, anche, veramente brutto). Ma come si può rimanere scettici e cattivi, quando si è presi dalla lettura del bel libro di un grande medico e cattedratico, Luigi Tesio, che affascina e trascina il lettore dall’introduzione fino alle conclusioni dell’ultima pagina, e lo conduce a interrogarsi, sia egli medico o fruitore della medicina, su che cosa sia oggi l’attività medica, quali debbano esserne i metodi e i fini, come possa la medicina essere scienza senza ridursi a essere semplicemente un ramo della biologia? (ndr: I bravi e i buoni, Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2015).
Utilizzando con ingegnosa abilità il metodo socratico di distruggere un argomento per costruirne un altro sulle ceneri del primo, pars destruens e pars construens del volume, l’autore smonta pezzo per pezzo l’attuale predominio della concezione della medicina come bioscienza, fornitrice di leggi generali e di algoritmi buoni per tutti, e argomenta in modo costruttivo a favore di una medicina, scienza sì, ma dell’individuale; meglio ancora, della persona.
È indubbio che lo sviluppo, solo pochi anni fa impensabile, delle scienze applicate alla medicina abbia creato quasi un contrasto tra le nostre conoscenze generali e la loro applicazione pratica, tra lo studio della malattia e la cura del malato. È questo contrasto che ha generato ciò che nella sua prefazione il filosofo Marco Buzzoni chiama “la delusione e l’insoddisfazione nei confronti di un modo di praticare la medicina”? Forse no, o forse solo in parte, se ricordiamo come la corporazione dei medici sia rappresentata nel balletto finale del “Malade Imaginaire” di Molière (anche se poi, sottile vendetta della medicina, Molière morì in scena proprio recitando il “Malade Imaginaire”).
Con trascinante passione, nei capitoli della “pars construens” Tesio costruisce la figura del medico che è insieme buono e bravo, perché conosce la scienza di curare la persona e “trova soluzioni concrete a problemi empirici ricorrendo a leggi generali e modelli teorici”. Dunque, il contrasto dialettico tra bioscienze, che ci permettono oggi di conoscere in modo sempre più approfondito la malattia, e la medicina clinica, che deve conoscere e, se può, curare il malato, non è irrimediabile: senza conoscere la malattia non si può curare il malato, ma curare la persona malata significa sapere trarre dalla conoscenza della malattia le soluzioni concrete (termine opportunatamente usato da Tesio) che sono più adatte al singolo caso. Forse oggi che abbiamo un Papa gesuita, e perciò un po’ semipelagiano (mi perdoni Sua Santità), possiamo azzardarci a pensare a un medico in cui si combini un po’ del rigore assoluto, scientifico e morale, di un Pascal, con l’individualismo casuistico del gesuita Padre Escobar, che sappia dare al paziente la parola salvifica del primo e quella consolatoria del secondo.
Con humour, Tesio chiude il suo bel libro con il ghigno sardonico di Talleyrand, che ci ricorda che l’errore è peggiore del crimine. Chiudere con il ghigno di chi fece dello scetticismo ragione di vita significa che anche Tesio sente incombere la sfida che la medicina “deterministica-riduttiva” ha già lanciato anche alla sua medicina della persona? Lo slogan della “personalized medicine” sta ormai diventando la parola d’ordine dei politici, dei regolatori e dei finanziatori della ricerca, e prevede un futuro in cui ogni individuo ammalato sarà curato deterministicamente a seconda del suo genoma, e il deprecato Claude Bernard parrà un riduzionista approssimativo e dilettantesco. Non ci resta che sperare che ci saranno ancora medici come Tesio, che sapranno sfuggire a tanto ferreo determinismo, e fornire a ogni malato soluzioni non solo sapienti ma sagge.