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Non c’è qualità senza etica
Non c’è qualità senza etica |
Roberto Zanetti, Direttore del Registro Tumori Piemonte, Centro di Riferimento per l’Epidemiologia e la Prevenzione Oncologica in Piemonte, su Il Maestro e le margherite. |
![]() Avedis Donabedian (1919-2000) è stato fra i protagonisti dello sviluppo del pensiero organizzativo nei sistemi sanitari. Dal suo primo lavoro in tema di valutazione, nel 1958 (1), e particolarmente dal primo articolo di sistematizzazione teorica della valutazione della qualità nel 1966 (2),
Rispetto ad altri campi, nella medicina il pensiero organizzativo si è sviluppato solo di recente, negli ultimi decenni. Prima, l’atto medico si svolgeva nella maggior parte dei casi in una stanza, quella del malato o quella del medico, con pochi strumenti, poche figure ausiliarie, e sembrava non necessitare di molta organizzazione. Organizzazioni più complesse, talora molto complesse, erano invece riservate all’incontro della medicina con circostanze particolari della società, e rispecchiavano le esigenze di queste, non quelle del lavoro del medico o del benessere del paziente. Si consideri l’ospedale: fino ai primi decenni del secolo scorso esso poteva avere dimensioni logistiche assai grandi anche rispetto ad una scala odierna, ed era il luogo di assistenza dei malati divenuti un peso per le famiglie, per lo più destinati a morte prossima. Nel ricovero (come dice la parola) essi ricevevano cibo e letto, meno costantemente terapie. L’organizzazione ospedaliera ricalcava gli schemi della comunità religiosa. Si possono evocare altri esempi di subalternità organizzativa della medicina. La chirurgia di guerra dell’esercito napoleonico, di organizzazione assai complessa, rispondeva ad esigenze di rapidità di movimento bellico: privilegiava l’amputazione sul campo al trasporto nelle retrovie, i chirurghi dovendo avanzare a fianco delle truppe indenni per un nuovo ciclo di interventi. La Sanità pubblica, attuatrice di interventi di sicura efficacia preventiva nell’ambiente e sulla scala collettiva, era medica nell’impianto culturale, sanitaria negli scopi, poliziesca nell’organizzazione e nella esecuzione di norme che escludevano le esigenze individuali. La produzione e la distribuzione dei farmaci, rigorosamente separate dalla medicina clinica, presentavano invece continuità con la filiera alimentare e con quella della chimica di consumo (quando non addirittura con la distribuzione annonaria, vedi Chinino di Stato). Nella medicina clinica, quella per tutti e di tutti i giorni, fino a dopo la seconda guerra mondiale lo Stato effettuava pochi interventi organizzativi ulteriori a quello di regolamentare l’esercizio della professione. Sono poche, fino alle generazioni nostre, le eccezioni a questa assenza di visione organizzativa nella medicina, e poche le eccezioni alla sua sudditanza ad altre culture organizzative: il lavoro di Florence Nightingale è forse la maggiore di tali eccezioni. Il prolungato residuo di artigianalità nella pratica della medicina appare di non facile interpretazione quando si consideri che in altri settori sono maturate, anche prima dell’Ottocento, complesse culture organizzative e la macchina statale è stata spesso protagonista nel promuoverle: trasporti, comunicazioni, scuola, commercio. Quando, perché e come le cose iniziano a cambiare, e si sviluppano il pensiero e la cultura organizzativa nella sfera della salute e delle cure? Le premesse per il cambiamento paiono situarsi nei decenni centrali del secolo scorso, con lo sviluppo imponente della moderna medicina: sul pilastro scientifico della innovazione tecnologica (strumenti e farmaci), su quello etico e politico della affermazione di universalità del diritto alle cure, su quello economico della disponibilità di risorse che spostano la visione della malattia da fatalità distruttrice ad avversità contrastabile con l’investimento individuale e collettivo.
C’è bisogno di una dottrina organizzativa, e viene presa dal mondo che più ne ha propulso lo sviluppo, il mondo dell’impresa. Nella sua lunga storia, dagli schemi ottocenteschi di controllo dell’intensità del lavoro individuale, alle formule fordiste e tayloriste di controllo dell’intensità di prodotto, al controllo di qualità del prodotto introdotto nel periodobellico, alla qualità congiunta di lavoro e prodotto del toyotismo, la cultura organizzativa d’impresa era giunta, al momento in cui la medicina (nordamericana in particolare) vi si affacciava, alla tappa della qualità totale (prodotto, lavoro, società circostante). Dell’ampio e lungo processo assimilativo della dottrina della qualità totale nei servizi sanitari il libro di Donabedian mostra l’approdo maturo, racconta la strada fatta per raggiungerlo, riflette criticamente sui limiti; non manca di lasciare in qualche punto trasparire lontane radici, come le carte di controllo statistico. Mentre è noto che nel caso dell’impresa la cultura organizzativa ha per scopo affermazione ed espansione, e la qualità totale non è scaturita da una finalità sociale bensì è nata come strumento di competizione nel mercato globale (dalla originaria competizione Usa-Giappone in avanti), merita forse confermare che anche nella assimilazione sanitaria essa è strumento e non fine. Ciò è espresso con chiarezza da Donabedian nelle considerazioni conclusive al libro: “Che l’obiettivo della qualità dipenda, in ultima analisi, dall’essere umano sarà stato per me una fonte di speranza, piuttosto che di disperazione. È motivo di rallegramento, è persino nobilitante, credere che ogni ostacolo alla buona assistenza possa essere rimosso o aggirato se soltanto noi lo desideriamo ardentemente.” Nell’impresa capitalista il successo è condizione per l’(eventuale) etica, in medicina l’etica è condizione per l’(eventuale) successo. L’organizzazione è in entrambi i casi ancella. È evidente che la strada del metodo (la qualità totale) è più ripida per il servizio dell’etica che per quello del successo (3).
Questo libro presenta, nella sua materia come nel suo allestimento, un orizzonte profondo nel quale molti piani si continuano uno nell’altro: quello del testo dell’autore che offre una Summa della disciplina cui ha dedicato una vita; quello della vita che si è dipanata prima e durante tale esperienza; quello dell’accompagnamento (traduzione, introduzione, glosse) che la curatrice ha con passione compiuto e quello del lavoro dell’editore romano, sempre raffinato ed elegante sceneggiatore delle proprie collane e libri. Questo intreccio reca anche l’evidenza di almeno un paio di stimolanti “aporie”. Una prima, epistemologica, è espressa dalla scrittura dell’autore che evita l’uso dei numeri nel parlare di quantità. Una seconda, linguistica, è contenuta nella dichiarazione (dalla curatrice): che una parola latina sia intraducibile in italiano dopo essere passata per l’inglese.
9 febbraio 2011 |
Bibliografia e note
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