Adam Phillips scrive nella stessa stanza in cui fa lo psicanalista: ci sono tanta luce e tanti libri, un ambiente confuso ma non disordinato. E noi siamo pronti a iniziare un’interazione che, per molti versi, è l’esatta antitesi di quelle che si svolgono qui. Mi ci trovo per parlare del suo ultimo libro, Going Sane (Hamish Hamilton). C’è qualcosa in lui, una sorta di gentile veemenza, che suggerisce di evitare i preliminari. E così passiamo subito ad affrontare il tema della pazzia. Sebbene il libro sia incentrato sulla salute mentale – cos’è, come si misura, se è possibile raggiungerla e conservarla – è molto difficile, come lui precisa, parlare di un concetto senza citare l’opposto. “La salute mentale non è un concetto affascinante come la follia”, sostiene, “persino come alternativa alla parola ‘folle’, il termine ‘sano’ suona decisamente vuoto. Ma ho l’impressione che o la follia è un altro termine per definire la natura umana, e noi tutti siamo molto strani, e la vita sta impazzendo, come è accaduto in passato, oppure siamo in grado di essere effettivamente qualcos’altro. Questo qualcos’altro è quello che sto cercando di esplorare, e sono convinto che si tratti di qualcosa di molto oscuro e molto trascurato”. Sembra essere davvero così. Mentre sulla follia sono stati scritti innumerevoli libri, la salute non è mai stata affrontata da Shakespeare, Freud, Blake o Jung e quasi del tutto ignorata dai cosiddetti guru dell’industria del self help. Questo suggerisce che la diamo per scontata e ci pensiamo solo quando viene drammaticamente interrotta – dal dolore, dalla depressione o dalla tensione nervosa. E se abbiamo conferito ad alcuni tipi di pazzia una sorta di aura romantica – il genio tormentato di Sylvia Plath, la follia creativa di Artaud o Van Gogh – la sanità mentale, come sostiene Phillips, non è mai stata di moda. 0, per dirla con le sue parole, "la salute è sempre stato un termine non alla moda, che in realtà non è mai andato del tutto fuori moda".
Guardare a quello che significa essere "sano di mente", dice Phillips, accennando forse al subtesto di tutti i suoi scritti, "è un altro modo di guardare a quello che speriamo per noi stessi". In passato Phillips ci ha guidati a riflettere in modo diverso su argomenti quali, fra gli altri, la noia, il flirt, la confusione, la monogamia, la fuga, la morte e i sogni a occhi aperti. Il suo primo libro, dal titolo On Kissing, Tickling and Being Bored (Sul baciare, il solleticare e l’essere annoiati, edito in Italia da Il Pensiero Scientifico Editore), ha gettato le basi per quelli seguenti: era scherzoso come suggeriva il titolo ma anche decisamente rigoroso dal punto di vista intellettuale. Phillips potrebbe tranquillamente essere considerato il più scettico fra gli psicanalisti di oggi.
Una volta ha dichiarato: “Per me la psicanalisi è soltanto una fra le tante cose che si possono fare quando non si sta bene. Si potrebbe provare anche con cose come l’aromaterapia, il lavoro a maglia o il deltaplano. Non credo che la psicanalisi sia la cosa migliore in assoluto, anche se le attribuisco un grande valore”.
Come tutte le opere di Phillips, anche Going Sane ruota attorno alla nozione che quello che pensiamo di volere potrebbe non essere quello di cui abbiamo davvero bisogno – di fatto, potrebbe distrarci e sminuirci. Così esplora la follia del denaro e la follia del sesso, due delle peculiari anche se non uniche ossessioni di un’epoca emotivamente sbilanciata tralasciando invece, dato interessante, la follia della celebrità o la follia della reality tv – due recenti fenomeni culturali. La celebrità, e le relative insoddisfazioni, "sono tutta un’altra cosa", che magari affronterà in futuro. Se esiste una ‘cultura della celebrità’ – un vero ossimoro – e che tale cultura sia in grado di far sentire inadeguate o invidiose le persone, o magari alimentare la dipendenza da shopping sfrenato o Botox, sembra sottolineare come in fondo ogni cultura abbia le pazzie che si merita. “Sì, sembra sia vero. All’inizio, ad esempio, la psicanalisi trattava per lo più questioni inerenti all’inibizione sessuale. Negli anni Cinquanta, era incentrata soprattutto sull’identità – individui che non sapevano chi erano e che credevano di doverlo sapere. Oggi gli psicanalisti vedono sempre più persone che avvertono una sorta di disperazione di fronte all’inutilità della vita, o l’impossibilità di avere relazioni sessuali. Oppure sentono una fobia generalizzata, un’ansia rispetto a cose ordinarie”. La difficoltà che abbiamo nell’accettare noi stessi, sostiene Phillips, è aggravata dal fatto che viviamo in una cultura altamente competitiva e guidata dal mercato, che ci propone modelli sempre più irrealistici per vivere meglio. “Se ci sentiamo ripetere che nella vita non c’è nulla da raggiungere al di là del successo materiale”, prosegue, “ecco che ci ritroviamo già con un’immagine ristretta e stereotipata di quella che dovrebbe essere una vita di qualità. Allo stesso modo, se ci presentano la celebrità come il modello definitivo di una vita di qualità, ci stanno vendendo una versione piatta e superficiale della vita. La nozione di una vita buona non potrebbe essere più sminuita di quanto non lo sia oggi”.
Una delle cose più utili che possiamo fare come individui, spiega, è "permetterci di sognare di più a occhi aperti". Cosa in aperto conflitto con una cultura che punta a un’attività sempre più frenetica e competitiva. “Uno degli elementi che stupisce maggiormente all’interno della cultura capitalista”, spiega, “è la mancanza di stupore e di tempo per vegetare. Suggerirei di perdere tempo e di ridurre gli stimoli, come facevamo da bambini. Invece di sentirci ripetere quello che vogliamo ed essere obbligati a correre per ottenerlo, beneficeremmo di più da quei momenti di noia vagamente inquieta, in cui capire cosa desideriamo”. Ci stiamo rendendo conto che sebbene le nostre vite siano più facili di quelle dei nostri genitori o nonni, risultano più inutilmente complesse e noi ci sentiamo più infelici. Questa infelicità si manifesta con una strana insoddisfazione nei confronti di noi stessi e nell’incapacità di essere contenti. “Credo che abbiamo delle aspettative non realistiche sulle relazioni, la felicità, la speranza. Non siamo educati ad amare la realtà. È molto difficile, ad esempio, accettare le persone per quello che sono. Una delle cose più difficili è riconoscere i nostri genitori come persone, accettare il fatto che dentro i nostri genitori non ci sono genitori migliori”. Going Sane differisce dai suoi libri precedenti per un elemento cruciale: si conclude con un capitolo che si avvicina a una sorta di ricetta per essere contenti. E si tratta anche di una ricetta complessa, una serie di negoziazioni fra ciò che è possibile e ciò che è realistico, fra ciò che vogliamo e ciò che siamo disposti a compromettere. Gli chiedo come dovrebbe funzionare un rapporto sano. “Bè, per prima cosa non bisognerebbe preoccuparsi se funziona o meno, ma se si sta bene o si desidera la compagnia dell’altro. Non funziona come un rapporto di lavoro. Anzi, quello sarebbe esattamente il modello sbagliato”. Ma allora quale sarebbe il modello giusto? “Forse dovremmo considerare l’amicizia come l’immagine migliore di un rapporto che funziona. E accettare il fatto che le relazioni sessuali sono inevitabilmente imprevedibili. A quel punto non misureremmo il successo di un rapporto in base alla sua durata. Che vada avanti per 20 anni o 20 giorni non è fondamentale. È fondamentale domandarsi: la mia vita è migliore con questa persona?”. Adam Phillips è molto sospettoso nei confronti delle opinioni prevalenti e scettico nei confronti dell’autorità, anche la sua. Una volta ha dichiarato di odiare il ‘carattere intrusivo’ della psicanalisi, precisando che “la maggior parte delle persone è essenzialmente riservata e la richiesta di comprendere se stessi comporta spesso una tensione che, a lungo andare, può sminuirci”. Hai l’impressione che i suoi scritti siano in realtà un’auto-interrogazione, un modo per rimanere vigili di fronte ai rischi e alle insidie inerenti alla sua seconda professione. “Scrivere”, dice, “è il mio modo per risolvere le cose e anche le reazioni rientrano nel processo. Scrivo libri per le persone che li amano e per quelli che li odiano. Se la gente riesce a farsi prendere, o se li ritiene utili, sono felice, ma il mio obiettivo non è certo convertirli”.
Phillips è nato a Cardiff nel 1954 ed è figlio unico. I suoi genitori erano ebrei polacchi di seconda generazione e la sua infanzia è stata relativamente tranquilla. È cresciuto in una famiglia allargata, con due genitori "ebrei molto consapevoli ma non credenti". Suo padre è stato il primo della famiglia a frequentare l’università, vincendo una borsa di studio a Oxford. Da bambino, Phillips nutre una grande passione per la natura: il profondo e duraturo amore per la letteratura fa capolino solo durante l’adolescenza. Studia inglese a Oxford e le sue influenze più determinanti sono indubbiamente letterarie. Attualmente riveste l’incarico di editor generale delle recenti traduzioni di Freud (per Penguin) che considera soprattutto un ‘grande scrittore’. A 50 anni, Phillips sembra molto più giovane e possiede l’aria vissuta e arruffata di chi aveva vent’anni nei Sessanta. Anche i suoi libri presentano a volte la giocosità e la mancanza di rispetto verso l’autorità, come pure il tono utopico di quel decennio. “Credo nei valori degli anni Sessanta molto più di allora”, sostiene. “Con il passare del tempo, quei valori tanto bistrattati e denigrati mi sembrano sempre più veri e autentici”.
Il suo radicalismo, che sembra essere aumentato libro dopo libro, può affondare le sue radici anche nell’esperienza vissuta presso il Servizio Sanitario Nazionale, nel quale ha lavorato per quasi 20 anni, diventando il principale psicoterapeuta infantile nell’ospedale Charing Cross di Londra. In quell’ospedale, e nel centro per bambini disadattati che ha contribuito a realizzare a Camberwell, ha trattato pazienti affetti da profonda depressione e ormai stanchi della vita, per i quali la terapia rappresentava letteralmente l’ultima spiaggia. Questa esperienza lo ha completamente prosciugato e c’è chi sospetta che il suo scetticismo e l’iconoclastia derivino da iena disaffezione verso quella psicanalisi che non si misura nel mondo reale, dove spesso chi ha più bisogno si vede negare le cure.
Nel campo della psicanalisi, poi, Phillips risulta essere un tipo solitario. I suoi libri ci chiedono ripetutamente di considerare a che cosa serve la terapia, forse perché Phillips è perfettamente consapevole di quanto sia facile farne un cattivo uso. Non è, per caso, come suggerisce il libro, "un’altra forma spuria di autorità?" Non è forse diventata il contrario di quello che doveva essere, un mezzo per ridurre il nostro potere, un metodo per gestire la nostra disillusione e stemperare il nostro idealismo? Quello che colpisce maggiormente del suo ultimo libro è il modo in cui i sintomi che rileva nei suoi pazienti – insoddisfazione, disperazione, mancanza di speranza – riflettono ansie collettive. Questo lascia presagire, fra l’altro, quello che Phillips definisce "una profonda disperazione politica". “C’è una perdita di fiducia nei politici e nell’idea di democrazia partecipativa”, commenta, “ma anche la mancanza di visioni politiche autenticamente competitive. E credo sia questo un dato allarmante. La gente ha bisogno di un’arena nella quale pensare, discutere, impegnare le sue passioni ma, cosa forse ancora più importante, deve avere la sensazione di essere ascoltata. Ecco perché la politica è essenziale. Ed ecco a che cosa serve la psicanalisi: parlare per scoprire che cosa c’è nella mente di un individuo, quale impatto può avere sugli altri”.
Il suo modo di scrivere può risultare difficile e a volte persino troppo carico di contenuti, ma di certo costringe sempre a pensare. Infatti dice: “Non ho teorie da esporre, ho solo frasi. Non voglio che la gente pensi: ecco quello che Phillips pensa a proposito di X o Y. Non voglio informare ma evocare. Idealmente, vorrei che i libri facessero ritornare le persone ai propri pensieri". In questo senso, credo ci sia riuscito benissimo.
Sean O’Hagan
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