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Prendersi cura del dialogo

Che cos’è questa parola ambivalente, questa parola valigia che entra in gioco
in ogni forma di discorso e in ogni forma di vita?

Eugenio Borgna, Parlarsi, la comunicazione perduta

La parola valigia (1) di cui parla Eugenio Borgna  è “comunicazione”. Una parola che, proprio come una valigia, può essere vuota o piena. Troppo spesso questa parola valigia è vuota, o piena di cose messe lì a caso, per pigrizia o per abitudine.

Io ho la pretesa di insegnarla, la comunicazione. Quasi sempre a quelli che vengono definiti “adulti competenti”: medici, insegnanti, educatori, infermieri. E spesso mi sento dire: ma cosa c’è da imparare? Come pensi che avremmo fatto il nostro lavoro finora, se non sapessimo comunicare? Comunicare è una cosa spontanea, c’è chi lo fa meglio e chi peggio, ma non si insegna e non si impara.

Per comunicare bisogna innanzitutto intendersi: e allora, che cosa intendiamo per “comunicazione”? La prima convinzione da superare è che comunicare significhi “dire”. Dire, parlare, con l’aspettativa di essere ascoltati e capiti. Obbediti, anche, quando la relazione è tale che chi “dice” ha potere, o responsabilità, nei confronti dell’altro.

Mi capita sempre più spesso di incontrare genitori che “dicono” ai loro figli di pochi anni cose del tutto incompatibili con il modo in cui un bimbo vede la realtà, nella convinzione che tutte quelle parole, tutte quelle spiegazioni ragionevoli, faranno sì che il bambino rinunci senza chiasso a un giocattolo, a un gelato, a uno dei tanti “ancora” che fanno della relazione genitore-bambino un perpetuo scontro di volontà. Naturalmente la cosa non funziona, ma difficilmente questo fa nascere dubbi sull’efficacia della strategia “adesso ti dico, ti spiego, ti convinco”; più spesso la responsabilità si sposta sull’’altro’: è lui, il bambino, che è ostinato, capriccioso, irragionevole, “se si mette in testa qualcosa non c’è verso di convincerlo”.

Qualcosa di simile può avvenire anche fra adulti. In particolare, quando si parla di salute e di cura: chi per ruolo o per professione si è assunto l’impegno di occuparsi della salute di altri ha l’incontenibile tendenza a dire, spiegare, argomentare. Curiosamente, la disponibilità di un medico a dedicare tempo per spiegare accuratamente le ragioni di una prescrizione, di una indicazione clinica, viene considerata a priori un indice di buona capacità comunicativa: soltanto da lui stesso, però, e magari dai suoi colleghi.

E i pazienti? Un medico mi raccontava di avere accompagnato la moglie da un collega in vista di un intervento chirurgico abbastanza impegnativo. Forse per attitudine personale, o forse per fare bella figura con il collega, il medico in questione si mise d’impegno per spiegare alla signora i motivi che consigliavano l’intervento, i grandi progressi delle tecniche operatorie degli ultimi anni, che portano ormai a una percentuale di pieno successo nella quasi totalità dei casi e a rischi minimi; e poi le modalità del decorso post-operatorio, la possibilità di fare riabilitazione anche in casa, e i vantaggi per la sua vita futura.

Al marito che uscendo lodava la disponibilità e l’impegno del collega la signora, chiaramente irritata, rispose: “Andrà bene così per voi medici.
Io so solo che non mi ha neanche chiesto come stavo, e se l’intervento mi faceva paura”.

Chi è il paziente?

“Il cielo si spacca e tutto si capovolge… Niente è più ciò che era, gli altri non ci sono né ci saranno più, tutto è via, ci sono Luigi e la malattia in un immenso spazio bianco” (2).

Luigi è il protagonista di La linea verticale, storia autobiografica trasformata anche in serie TV. Quello che racconta in queste righe è un cambiamento: il momento in cui la persona Luigi diventa la persona Luigi con un cancro al rene.

Sono bastate poche parole del medico nel corso di un’ecografi a: “C’è qualcosa” e poi “Lei ha un tumore al rene sinistro. È grosso…”: è un punto di svolta, e il cambiamento è inevitabile e irreversibile.

Una persona è la sua storia. Passato, presente, futuro. Ricordi, esperienze, aspettative. Mescolati, non artificiosamente ordinati come nella trama di un romanzo. La storia di Luigi con un cancro al rene comincia adesso; è una storia nuova – uno spazio bianco – in cui il Luigi di prima non scompare del tutto ma si trasforma, il passato non sparisce ma non si connette al futuro nello stesso modo di prima.

La trasformazione non dipende solo dalla combinazione dei due elementi, Luigi+cancro: è una trasformazione più complessa, una trasformazione sistemica. I nuovi personaggi che entreranno da questo momento nella sua vita – i medici, gli infermieri, gli OSS, ecc. – parleranno a un Luigi diverso, ancora sconosciuto anche a lui stesso. Parleranno a un Luigi tu, o a un Luigi esso?

C’è un’azione comunicativa che segnala senza possibilità di dubbio se fra due persone è in atto un dialogo, o se invece c’è una semplice emissione di messaggi da parte dell’uno e dell’altro: è la domanda. Non qualsiasi domanda: parlo di domande per rendere visibile l’altro, per delineare una immagine da condividere, per raccogliere frammenti della storia unica e irripetibile che fa di una persona quella persona.

Dico spesso che i medici fanno troppo poche domande ai pazienti, e ovviamente vengo travolta da ondate di contestazioni: ma che dici? E poi che ne sai, mica fai il medico tu? Come credi che si faccia un’anamnesi? Come credi che si segua il decorso di una malattia? Ma quali sono le domande che fa abitualmente un medico a un malato?

Riflettendo sulle modalità del colloquio di anamnesi, Jerome Groopman (3) mette bene in evidenza che la logica di questo tipo di colloquio si basa su un algoritmo sì/no, che rivela i suoi limiti ogni volta che ci si trova di fronte a sintomi vaghi, o quando un esame dà risultati di difficile interpretazione.

Io aggiungerei che le domande del medico delineano la cornice entro cui il malato è autorizzato a inserire il proprio contributo allo scambio comunicativo: in sostanza, quello che è bene, utile, consentito dire al medico. Se la cornice è troppo ristretta, non lascia spazio a tutto ciò che il malato potrebbe dire per rendere visibile ciò che fa di lui un tu, una persona con le sue specificità.

Non è solo una questione di domande sì/no, di domande chiuse insomma, ma di ciò che ogni domanda fa succedere nella comunicazione fra due persone. Dobbiamo pensare alle domande come a un elemento attivo, che produce effetti sia nell’andamento dello scambio comunicativo sia nella relazione fra le persone che parlano fra loro:

  • La domanda definisce la relazione: chi la fa si sta attribuendo il potere, il diritto di farla. Il ruolo di chi fa la domanda, e il contesto in cui ciò avviene, possono rendere questo potere ancora più vincolante: a scuola come in tribunale come dal confessore come dal medico, la domanda esige una risposta. E riduce la possibilità dell’altro di dire qualcosa di diverso, di uscire dalla cornice.
  • La domanda definisce il tema e l’orientamento del colloquio, porta lo scambio comunicativo in una direzione e non in un’altra. È frequente che i pazienti dicano, dopo aver parlato con il medico, “Non gli ho detto niente di quello che avrei voluto dirgli”. Spesso dicono anche: “Non gli ho chiesto niente di quello che avrei voluto chiedergli”. Perché la cornice non prevedeva lo spazio per le domande del paziente, o per un suo contributo “fuori tema”.

Ma è solo con le domande che il medico può attingere al mondo del paziente e arrivare a condividere con lui gli elementi della sua storia che lo rendono riconoscibile, visibile: persona.

Di che cosa è fatto un dialogo?

Nelle classificazioni tradizionali alle domande sì/no (domande chiuse) vengono contrapposte le domande aperte, che in una semplificazione delle teorie della comunicazione sembrano guadagnarsi il titolo di “buone domande”. Non ci sono “buone domande”: ci sono percorsi che le domande tracciano e che due persone percorrono insieme. Dove arriveranno, se il percorso sarà utile a entrambi e soprattutto alla relazione fra loro, dipenderà soprattutto da chi ha maggiore responsabilità nel guidare lo scambio comunicativo. Benedetta Craveri (4) parla in un suo libro di “civiltà della conversazione”.

È una storica, e fa riferimento, con condivisibile nostalgia, all’atmosfera che regnava nei salotti dell’Ancien Régime in Francia: le conversazioni che si svolgevano nei salotti delle signore dell’epoca erano guidate da “leggi di chiarezza, di misura, di eleganza, di rispetto per l’amor proprio altrui. Il talento di ascoltare vi era più apprezzato che quello di parlare”. Possiamo dire che la conversazione fra medico e malato dovrebbe avere caratteristiche simili? Sicuramente sì per ciò che riguarda la chiarezza, la misura, il rispetto… e anche l’eleganza, perché no: si sente la mancanza di eleganza, di bellezza, di piacevolezza, nelle situazioni in cui incombe la sofferenza, il dolore, la paura.

Per quanto riguarda l’ascolto, vale forse la pena restituire a questa azione (perché di atto comunicativo si tratta) una concretezza meno ammantata di buoni sentimenti e di dedizione alla missione della cura. Ascoltare, nel senso di sentire che l’altro sta parlando, si fa anche se non si è buoni e se non si ha tanta voglia di farlo. Quella di cui parlo è la relazione di ascolto. Una relazione in cui sono presenti due persone e in cui si succedono atti comunicativi.

La relazione di ascolto, che è alla base del dialogo, richiede che entrambi gli interlocutori si sentano coinvolti nello scambio, e interessati ad ascoltare l’altro, oltre che a essere ascoltati. L’aura ideologica che circonda la parola «ascolto» fa dimenticare le esperienze che ognuno di noi sa di avere vissuto: l’amico che ci ascolta in silenzio mentre raccontiamo una preoccupazione, un momento difficile, e a cui improvvisamente chiediamo: “Ma mi stai ascoltando?”. Il figlio adolescente che ascolta in rassegnato silenzio la nostra appassionata tirata sui valori della vita e sull’importanza dell’impegno e del senso di responsabilità, mentre la nostra irritazione cresce: “Mi

ascolti?”. Cenni affermativi convinti. Ascoltava? Cosa manca, cosa ci fa nascere il dubbio di non essere ascoltati? Manca il contributo attivo dell’altro: un commento, anche una dichiarazione di dissenso (“Io non la vedo così”). Una domanda di approfondimento, di chiarimento (“Fammi capire: cosa intendi tu per impegno?”). Un riconoscimento delle emozioni che sto esprimendo; la proposta di esaminare un aspetto diverso del problema. Parole insomma. Sembra strano affermare che l’ascolto è fatto di parole, ma è così. Sono le parole, quelle usate bene, che mantengono vivo l’ascolto e sviluppano il dialogo. Come avviene qui fra un padre e una figlia.

Figlia. Papà, perché le cose fi niscono sempre in disordine?

Padre. Come? Le cose? Il disordine?

Figlia. Beh, la gente è sempre lì a mettere le cose a posto, ma nessuno si preoccupa di metterle in disordine. Sembra proprio che le cose si mettano in disordine da sole. E poi bisogna rimetterle a posto.

Padre. E le tue cose finiscono in disordine anche se tu non le tocchi?

Figlia. No… se nessuno le tocca, no. Ma se qualcuno le tocca, allora si mettono in disordine, e se non sono io è ancora peggio.

Padre. Già… ecco perché non voglio che tu tocchi le cose che sono sulla mia scrivania, perché il disordine diventa anche peggiore se le mie cose le tocca qualcuno che non sia io.

Figlia. Ma perché le persone mettono sempre in disordine le cose degli altri, papà?

Padre. Beh, un momento, non è così semplice. Prima di tutto, che cosa vuol dire disordine?

Figlia. Vuol dire… che non riesco a trovare le cose, e così tutto sembra in disordine. Cioè, quando niente è al suo posto…

Padre. D’accordo, ma sei sicura di dare a “disordine” il significato che gli darebbe una qualunque altra persona?

È uno dei metaloghi di Gregory Bateson (5): scambi domestico-filosofici fra lui e la figlia Mary Catherine. Si parte da una domanda di quelle che i bambini fanno: una domanda qualunque. Il padre (non Gregory, ovviamente) potrebbe ascoltarla con distratta benevolenza, risponderle con un “non lo so, cara” senza smettere di leggere il giornale; oppure risponderle con una spiegazione dotta, spingendosi magari fino a parlare di entropia; o approfittare dell’occasione per farle un predicozzo sulle bambine disordinate che non rassettano mai la loro stanza…

Affermazioni, spiegazioni, giudizi… In questo scambio, invece, quello che ci colpisce sono le domande: la qualità delle domande, capaci di incuriosire, di mantenere vivo l’ascolto, di stimolare una risposta da accogliere con interesse e rispetto, e a partire dalla quale proporre altre domande, raccogliere altre risposte. Un dialogo. Se invece della piccola Mary Catherine avessimo di fronte un paziente, se la sua domanda fosse “Dottore, perché queste medicine che mi ha dato per il mio mal di schiena non mi fanno nulla?”, possiamo immaginare due tipi di risposta. Il primo, di tipo esplicativo-difensivo, potrebbe suonare così: Cosa posso dirle, i farmaci non fanno miracoli; per i suoi sintomi quello che sta prendendo è il più consigliato, ma poi naturalmente tocca a lei aggiungere uno stile di vita più sano, più movimento, la riduzione del peso. Dal mal di schiena non si guarisce, è colpa della stazione eretta, i vantaggi di stare su due gambe si pagano, purtroppo… Quello che continuo a ripeterle è che il rimedio migliore è aumentare l’attività fi sica in modo da mantenere in buone condizioni l’apparato muscolo scheletrico, e fare attenzione al peso; lei, lo sa benissimo, è abbondantemente in sovrappeso, se perdesse una decina di chili la sua schiena ne sarebbe contenta. Ma se l’unica cosa che è disposto a fare è prendere farmaci, non possiamo aspettarci molto…

Oppure, potremmo immaginare una modalità più simile al metalogo, qualcosa di questo tipo:

Paziente. Dottore, perché queste medicine che mi ha dato non mi fanno nulla per il mio mal di schiena?

Medico. Nulla? Vediamo… Non è cambiato nulla da quando le prende, o mi sta dicendo che il mal di schiena non è ancora passato del tutto?

Paziente. Beh, a me interessa che passi del tutto, poi averlo un po’ meno non mi cambia molto.

Medico. Quindi anche se le medicine la fanno stare un po’ meglio non le basta.

Paziente. Certo che no, il mal di schiena mi rovina la vita, poco o tanto che sia.

Medico. E in particolare cosa le rovina, il mal di schiena? Quali sono le cose della sua vita che con il mal di schiena non riesce a fare, e le piacerebbe fare?

Paziente. Sa, sto scrivendo un romanzo… cose da dilettante, ma… ci tengo… e se sto al computer per più di un’ora la schiena mi fa male, così devo smettere.

Medico. Se le dico che per il mal di schiena è importante anche fare movimento, le dico una cosa nuova?

Paziente. No, me lo aveva già detto, ma fra il lavoro e questo… hobby, chiamiamolo così, o scrivo o faccio attività fisica.

Medico. Beh, dipende… Lei a che tipo di attività fisica pensava?

Paziente. Che ne so, palestra, piscina… Ma dove lo trovo il tempo?

Medico. Mettiamo da parte palestra e piscina, allora: io direi di vedere insieme in che modo può riuscire a fare movimento nel tempo che ha, senza stravolgere la sua vita.

Se misuriamo il tempo che ciascuna delle due modalità richiede, ci rendiamo conto che non ci sono differenze significative. Ma nella prima versione tutto il tempo è occupato dalla voce del medico; il mal di schiena di cui si parla è quello che conosce lui, dal punto di vista clinico.

Nella seconda versione ci sono due voci, ma non solo: due immagini del mal di schiena; i suoi effetti sulla vita di quel paziente. E domande, da entrambe le parti. Chiarezza, misura, rispetto… equilibrio. Alla Cavarero piacerebbe.

L’equilibrio ha a che fare con:

  • lo spazio conversazionale che gli interventi dei due interlocutori occupano;
  • la distribuzione degli atti comunicativi;
  • l’apporto informativo che ciascuno fornisce alla conversazione.

In questo dialogo, sia il medico che il paziente hanno modo di fare domande, e di rispondere alle domande senza essere interrotti.

Ciascuno, con le sue risposte, fornisce all’altro informazioni che prima non aveva, e che vengono utilizzate nel processo dialogico. Il risultato è una sorta di tessuto in cui sono presenti “fili” che provengono dal mondo del medico e dal mondo del paziente, che si intrecciano e danno vita a un disegno che non era prevedibile a partire dalla domanda iniziale del paziente.

Un dialogo è una costruzione comune, la creazione e la condivisione di qualcosa che prima non c’era.


Note e bibliografia

  1. Per i linguisti, “parola valigia”, o “parola macedonia” è una parola composita, fatta di due parole che acquistano, unite, un nuovo significato, come cartolibreria, fantacalcio, narcotraffico, ecc. In questo senso, “comunicazione” diventa una parola valigia. Ho aggiunto a questo significato un significato metaforico, quello di “parola contenitore”, per sottolineare la possibilità di “riempire” questa parola di significati diversi.
  2. Torre M. La linea verticale. Milano: Baldini e Castoldi, 2017.
  3. Groopman J. How doctors think. Boston: Houghton Mifflin, 2007.
  4. Craveri B. La civiltà della conversazione. Milano: Adelphi, 2006.
  5. Bateson G. Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi, 1977.

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Testo estratto dal capitolo 1 del libro Il dialogo e la cura – Le parole tra medici e pazienti di Silvana Quadrino.

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