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Quando l’esitazione prende il sopravvento

Perché è così difficile accettare di cambiare i nostri comportamenti?

Cambiare comportamento dal punto di vista psicologico risulta sempre faticoso perché richiede la rinuncia ad un’abitudine, o comunque ad un comportamento che fa parte della nostra quotidianità e che spesso diamo per scontato. Quando ci viene prescritto un determinato comportamento (pensiamo nel periodo covid-19 alle semplici regole di lavarsi spesso le mani, indossare le mascherine o mantenere il distanziamento fisico) ci sentiamo in qualche modo minati nella nostra libertà di valutazione e di decisione. E soprattutto dobbiamo sforzarci di riconfigurare le nostre condotte: sforzo che richiede energia mentale, motivazione, attenzione…Ecco perché dal punto di vista psicologico l’aderenza è un processo complesso in cui non basta sapere cosa si dovrebbe fare e perché. Elementi più profondi, emotivi, irrazionali sono messi in gioco a fronte di una prescrizione di cambiamento: la frustrazione della rinuncia, la preoccupazione per ciò che è diverso e nuovo, ma soprattutto il senso di reattanza, cioè la ribellione verso tutto ciò che ci pare limiti la nostra libertà. La mascherina è per esempio – ai tempi di covid-19 – il simbolo psicologico della sensazione di libertà negata. La difficoltà di respiro dovuta alla mascherina, da molti usata per spiegare la non aderenza a tale prescrizione rappresenta un buon esempio di reattanza psicologica a un cambiamento comportamentale imposto.

Nel suo libro Esitanti paragona l’aderenza alle abitudini di prevenzione con le montagne russe. Perché?

Perché l’aderenza non la si conquista una volta per tutte, anzi, costituisce una sfida quotidiana: si passa dalla determinazione a cambiare le proprie condotte di salute all’entusiasmo per i primi positivi risultati, a momenti in cui “si getta la spugna”, cioè di fatica e scoramento in cui prevale il desiderio di tornare a sentirsi liberi. Anche nel corso della pandemia da covid-19 abbiamo visto andamenti emotivi analoghi nell’aderenza alle misure preventive e soprattutto nella persistenza di tali comportamenti. Se infatti a marzo 2020 in Italia l’angoscia iniziale per il rischio di contagio da covid-19 ha accelerato la presa di consapevolezza circa la necessità di cambiare comportamento e ha stimolato la motivazione ad aderire alle misure preventive, con il passare del tempo, indipendentemente all’effettivo andamento epidemiologico dei nuovi contagi,  la volontà di trasformazione circa il proprio comportamento di salute si è affievolita nella popolazione: quando ci si abitua a una condizione di emergenza la motivazione a proteggersi scema ed aumenta la tentazione di sfuggire alle prescrizioni preventive. È proprio in quel momento che invece serve maggiore attenzione, maggiore investimento comunicativo da parte delle istituzioni e maggiore determinazione psicologica da parte delle persone.

Sostiene che gli scienziati sono snob: come possono ribellarsi i cittadini alla dittatura degli esperti o alla loro onnipresenza?

Negli ultimi anni assistiamo a una forma di dominanza politica del sapere esperto di matrice tecnico-scientifico. Questo è funzionale alla continua innovazione e al miglioramento della qualità di vita delle persone, ma rischia di sancire una sorta di gerarchia: in altre parole il potere degli “scienziati” volto a dominare la (presunta) ignoranza della società. Nelle sue forme estreme questa gerarchia rischia – sul piano psicosociale – di chiudere a priori il dialogo scienza e società e di porre le basi per scetticismo e sfiducia presso i cittadini. In altri termini: quando gli “esperti/scienziati” tendono a considerare i “laici/cittadini” quali meri spettatori o ricettori finali di un’innovazione, non vi sono le condizioni per aprire un rapporto di collaborazione con la società con conseguenze pericolose sul piano dell’accettazione stessa di tale innovazione. In realtà, il “sapere esperto” (quello degli scienziati) e il “sapere laico” (quello della società) non dovrebbero essere letti in termini di opposizione o di mutua esclusività. I cittadini non sono solo materia grigia di plasmare, modificare, rimbrottare, guidare. I cittadini sono portatori (comunque sia) di una forma di conoscenza che ne regola il funzionamento sociale e l’adattamento psicologico al proprio mutevole contesto di vita. Una forma di conoscenza che non necessariamente è funzionale al benessere e alla salute personale e collettiva (anzi, spesso proprio non lo è!). Ma che è pur sempre una forma di conoscenza: sostituire con nozioni nuove, complesse, sfidanti sul piano scientifico le nozioni esperienziali già interiorizzate e applicate nella vita pratica da parte delle persone non è facile e nemmeno immediato. E non si tratta neppure di svuotare un “bicchiere colmo di nozioni sbagliate” con nuovi contenuti più adeguati. Si tratta di ingaggiare man mano il cittadino a dare senso pragmatico delle informazioni scientifiche (spesso percepite dalle persone come astratte e avulse dal proprio contesto di vita). Un processo complesso di elaborazione che richiede tempo, ascolto, empatia per comprendere i criteri e i modi di ragionamento “laico” delle persone.

 

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