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Quel filo di… parole

Con una raccolta di brevi scritti, Marco Geddes de Filicaia ricostruisce attraverso un filo di parole aspetti diversi e rilevanti del mondo della salute. La scelta delle parole – solo apparentemente casuale – nasce dalla speciale attenzione e dalla profonda conoscenza che l’autore ha del contesto sanitario. Come lui stesso dice, la scelta del linguaggio deriva dagli obiettivi e se lo scopo del suo piccolo libro Cliente, paziente, persona era commentare criticamente aspetti rilevanti del mondo della salute, direi che l’esperimento è perfettamente riuscito.

Cliente, paziente, personaL’idea di un filo di parole per parlare di sanità mi è piaciuta. Nel lavoro di un pediatra il rapporto con la parola è quasi schizofrenico, perché si va dalla particolare attenzione necessaria nella comunicazione con i genitori, alla quasi inutilità della parola stessa nella relazione col bambino, almeno fino ad una certa età. Un bambino infatti non capisce le parole per quello che significano, ma per il colore emotivo che lui vi sente. Per questo la prima delle parole esaminate dall’autore, il termine di cliente in sostituzione di quello di paziente, suona ancora più assurdo se rivolto al paziente bambino, che è veramente soltanto una persona che ha bisogno di aiuto.

Il tema della centralità del paziente, che è argomento di un altro capitolo del libro, una volta declinato in età pediatrica, assume ancora una volta una particolare peculiarità: il pediatra deve sempre mediare tra i bisogni di salute del bambino e le richieste di salute dei suoi genitori, non sempre necessariamente collimanti. L’autonomia e l’autodeterminazione di un bambino, di un neonato, ma anche di un adolescente per alcuni versi, sono per forza di cose limitate. Inserirsi in un meccanismo così complesso con l’etica della customer satisfaction è politica provatamente perdente. Anzi è il modo migliore per indurre medicina difensivistica, come lascia intendere l’autore in un altro capitolo: non fa bene alla relazione medico-paziente e nemmeno alle casse dello Stato.

Ho poi particolarmente apprezzato il concetto dell’amicizia professionale di T. Brewin, riportato dall’autore: la figura di un medico amico, solidale, coinvolto, ma anche rispettoso, che sa quando tacere e fermarsi per non invadere l’intimità del paziente, è proprio il modello di medico cui faccio riferimento. Sembra banale, ma basti pensare che fino a pochi anni fa noi pediatri non riconoscevamo ad un prematuro neppure la possibilità di provare dolore!

Nel mio lavoro di pediatra di famiglia ho toccato più volte con mano l’importanza dell’intesa, altra parola chiave, che si instaura col bambino quando accetta la tua disponibilità a prenderti cura di lui, allora anche i genitori accettano il tuo intervento, proprio perché si fidano della fiducia che il suo bambino dimostra nei tuoi riguardi. Questa è una varietà molto particolare di alleanza terapeutica, ancora una volta un esempio di difficile equilibrio tra l’empatia non verbale col bambino e la scelta attenta e accurata di poche parole, possibilmente belle e buone e quindi anche terapeutiche, come dice giustamente Marco Geddes de Filicaia.

Nello scorrere i vari capitoli si intravvede il filo di un ragionamento etico di cui le parole scelte dall’autore sono un accurato strumento comunicativo. Parole che riportano il ruolo del medico all’ascolto delle richieste di salute, all’apertura della relazione col paziente che, adulto o bambino che sia, è una persona e non un cliente. Ha bisogno che ci si prenda cura di lui, di sentirsi compreso.

L’obiettivo di questa relazione di cura non può essere “fare contento” il paziente, in termini di customer satisfaction, ma aiutarlo a migliorare il suo stato di salute, il che per inciso non sempre significa guarirlo. Tutto ciò è molto bello e buono, per usare ancora parole scelte dall’autore e così piacevolmente distante dall’attuale concezione aziendalistica di una sanità, per cui il pareggio di bilancio conta più degli esiti di salute del paziente.

Fa bene ed è consigliabile leggere queste pagine, come chiede l’autore: con leggerezza, ma non con vaghezza ed è bene anche che un medico ricordi sempre quello che William Osler, uno dei più grandi clinici della storia moderna scriveva: è più importante capire che tipo di paziente è il malato che hai davanti, piuttosto che capire che malattia ha.


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