In primo piano

Ridurre le distanze

La vostra progettualità sembra suggerire una restituzione di visibilità al cittadino, sano o malato che sia. Con quali occhi guardate a chi parla di “empowerment del paziente”?

Il termine può avere più significati. Se con empowerment intendiamo la riduzione delle asimmetrie tra chi decide/produce il da farsi e chi fruisce/utilizza quanto il primo ha deciso – riduzione che si può declinare in termini negoziali, relazionali o conflittuali – la nostra proposta è diversa, ma non alternativa.
Per dare capacità di parola ai cittadini prima di tutto bisogna riconoscere le differenze e le disuguaglianze che li contraddistinguono, ovvero dare ad essi una visibilità in cui si riconoscano, che sentano propria, rispetto alla quale abbiano un diritto effettivo di parola. Si tratta, detto altrimenti, di fare epidemiologia nel senso originario.
Il suo significato è ben più ricco di quello comunemente attribuitole: è strumento e metodo per narrare la storia delle persone e delle popolazioni quando incontrano le “violazioni” al loro diritto-capacità di fruire dell’autonomia della vita. Le malattie sono una di queste “violazioni”, più o meno evitabili. Non certo l’unica. La epidemiologia trova il suo orizzonte di senso nella misura in cui rende visibili queste violazioni, ne esplora le cause, ne verifica-propone la evitabilità, contribuendo in questo modo a rendere effettiva la cittadinanza, l’essere membro con diritti di una comunità.
I diritti di vita non sono divisibili e la sanità (sempre più importante come capitolo dell’economia e come indicatore quotidiano della possibilità di avere una vita “autonoma”, non solo libera dalla malattia) deve essere pensata, dagli operatori e dalla collettività, non come un ambito di intervento e di procedure “mediche” ma come un pro-memoria didattico del se e quanto una società ha del diritto di vita una propria categoria di riferimento.
Da qui l’Epidemiologia di Cittadinanza (EdC): capacità di rendere visibili, condivisibili, evitabili tutte le situazioni di assenza di cittadinanza, siano queste per marginalità, esclusione, solitudine, povertà, malattia, ovvero per tutte le cause che tolgono autonomia. È sua parte costitutiva l’essere sperimentatori e narratori, con un linguaggio non tecnico n specialistico, delle soluzioni possibili.
È altresì uno dei modi di pensare al diritto come un bene comune, non garantito da, o delegato a leggi-prestazioni gestite dall’alto, ma come un progetto che può avere successo solo se è responsabilità appunto comune.

A leggere il “Chi siamo” sul sito del Laboratorio, si è sollecitati ad una più forte consapevolezza dell’importanza dei cosiddetti “determinanti distali” di salute: urbanizzazione, globalizzazione, iniquità sociali. Nella vostra esperienza, quanto, queste questioni, sono “distanti” anche dalla sensibilità del personale sanitario?

La Summer School e, più in generale, il lavoro del Laboratorio non si rivolgono solo agli operatori del sanitario, ma altresì a quelli del sociosanitario e del socio assistenziale. Se da una parte i primi sono distanti “nella prassi effettiva” dal riconoscimento dei determinanti come fattori/ambiti di intervento propri, per i secondi e i terzi succede quasi l’opposto: lavorano certamente molto di più sui/a partire dai determinanti, ma faticano a concepirne il valore dal punto di vista della salute, ovvero del diritto alla autonomia di vita.
Il punto centrale, però, è che si può uscire da questo “paradosso” solo se si mettono al centro le persone e le popolazioni. Sono le storie con le loro narrazioni – di cui dati e indicatori sono strumenti di visibilità – che ci dicono non astrattamente quanto quei determinanti negano, a chi, come, anni di vita potenziali e anni di vita in salute, per rimanere nel gergo sanitario.
Ora, recuperare/riapprendere la capacità di riconoscere e ascoltare le persone/popolazioni necessariamente porta ad assumere una maggiore attenzione e sensibilità ai determinanti. Con una aggiunta, quella di ridurre un secondo “paradosso”, quello del far diventare un “mestiere” la denuncia degli effetti della povertà sulla salute.

A chi rimproverasse la vostra attenzione alle biografie e ai vissuti individuali delle persone, quasi a scapito della medicina di popolazione, cosa risponderebbe?

È la stessa domanda che si pone al diritto dei popoli rispetto a quello degli individui, come se fossero due ambiti separati. La EdC integra la epidemiologia classica, mette l’accento “non solo” sui denominatori ed i valori medi, “ma anche” sui sottogruppi, le persone ed i loro contesti, e si pone domande, e cerca risposte, non solo conoscitive, “ma anche” di evitabilità-adattabilità.

Quanto sono lontane medicina personalizzata e “terapie target” dall’aspirazione ad una sanità/medicina contestualizzata?

Le “nuove” terminologie sono più delle altre da interpretare come espressione di un’intenzione di ricerca, più che di un bene acquisto “diverso” dagli altri. La ricerca di un target in fondo non è altro che la verifica del se e quanto il contesto complessivo (biologico, questa volta) è più o meno decisivo di una sua espressione puntiforme. Vale anche qui la logica non della contrapposizione, ma della complementarietà degli sguardi: non solo, ma anche…

A chi si rivolge la Summer School?

La Summer School si rivolge a operatori sociali, educativi, sanitari e sindacali, interessati a valorizzare le proprie esperienze, e le informazioni di cui dispongono i servizi di appartenenza, in termini di epidemiologia della cittadinanza. Nasce dal percorso di ricerca e sperimentazione che il Laboratorio condivide con realtà del mondo non profit, della ricerca scientifica, della difesa dei diritti umani, dell’attività sindacale, dell’assistenza e sanità pubbliche. Si tratta di mondi sempre più sotto pressione: crisi economica ovvero risorse calanti, autoreferenzialità nella visione e nelle strategie, sudditanza culturale da concezioni “market oriented”, stravolgimenti nelle relazioni di cura e nelle funzioni sociali, solo per citare qualche esempio, comportano due rischi tra loro complementari: la rinuncia e la fuga. Ci sono tanti modi per agire questi comportamenti, l’esito però non cambia: la perdita di protagonismo e di professionalità, ovvero di libertà per ricordare Franco Basaglia. La Summer School vuole essere, da questo punto di vista, una risorsa di “capacitazione”.

Cosa porterà a casa chi parteciperà?

Ci proponiamo che il corposo mix di lectio magistralis, dibattiti e laboratori produca, valorizzando il patrimonio di esperienza dei partecipanti, quattro bozze di protocolli di ricerca che si potranno poi utilizzare per continuare l’attività dei rispettivi servizi: un percorso formativo che formi capacità di ricerca in rete concretamente realizzabile.
Il messaggio che vorremmo uscisse dalla summer school è che è possibile concepirli e riconoscerli come “laboratori di diritti”. In diversi sosteniamo che non basta sviluppare “offerta”, che è necessario essere capaci di riconoscere i bisogni inevasi. La Summer School vuole dimostrare “formativamente” che questo si può fare nell’ordinarietà del proprio lavoro.
In una società in cui crescono fasce di popolazione con ridotti o addirittura senza diritti sociali e sanitari, l’intento è offrire agli operatori impegnati nelle aree critiche dei servizi di welfare, e ai decisori pubblici, metodologie appropriate per una ricerca locale che dia visibilità alle persone/popolazioni da tenere in conto nella individuazione delle risposte più appropriate in termini di diritti riconosciuti.
Si potrebbe anche dire che vogliamo correggere/integrare/ridefinire la filiera programmazione-gestione-rendicontazione che, seppure in modi diversi, caratterizza il funzionamento dei diversi sistemi di welfare, con visibilità-competenza-networking.

13 luglio 2011

La Summer School del Laboratorio di Epidemiologia di Cittadinanza

“Popolazioni invisibili, competenze, networking”
4-7 settembre 2011, Certosa del Gruppo Abele, Avigliana (Torino)

La presentazione (PDF: 170 Kb)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *