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Scienza più filosofia fa salute

Scienza più filosofia fa salute

 
 
copertina del libro ambiente e salute una relazione a rischioSono in diminuzione, per fortuna, ma ce ne sono ancora molti: sono quelli che spaccano il mondo (e la testa) in due: di qua le scienze esatte, duepiuduefaquattro, di là le scienze umane, o dello spirito; normalmente, un poco disprezzate, vista la metafilosofia di partenza ("la filosofia? È quella cosa con la quale, o senza la quale, il mondo resta tale e quale"). In mezzo, non bisogna metterci niente, altrimenti ci si ingarbuglia lo schemino e non troviamo più la rassicurante strada di casa. Be’, a tutti costoro è sconsigliata la lettura di Ambiente e salute: una relazione a rischio, volume assai più denso e ricco di stimoli di quanto la sua mole contenuta lasci prevedere; una sorta di "Baedeker" intellettuale attorno alla nozione e al contenuto dell’epidemiologia. La disciplina è, appunto, una di quelle che non stanno n di qua, n di là; o meglio, sia di qua che di là: "pretende" di essere scientificamente fon­data e insieme rivendica come parte costitutiva della propria scientificità l’essere inserita nel mondo sublunare, tra le cose "che possono essere così o anche altrimenti" (come diceva Aristotele), rivendica un fondamento e un esito umanistici, se è permessa una parolaccia. Tutto il volume – del quale in questa sede non si può certo dare conto – argomenta sotto diversi profili questo necessario intreccio tra certezze della scienza "esatta", conoscenze derivanti dalle scienze "umane", paradigmi di conoscenza indotti da desideri, opzioni, decisioni fondate etica­mente o – sul piano collettivo – politicamente.

Sono tre i profili sotto i quali viene indagata l’epidemiologia: quello della sua evoluzione disciplinare, dalle origini (il famoso caso del colera londinese e del dottor Snow) fino alla nozione attuale di ecoepidemiology, che mette in risalto la dimensione della complessità, anche sociale, di questa scienza. I primi quattro capitoli sono dedicati all’esposizione dell’evoluzione storica ed epistemologica della epide­miologia e alla messa in evidenza dei "punti sensibili" del suo statuto scientifico attuale.

Per titoli: la "costruzione" dell’oggetto di indagine e la consapevolezza dell’influenza che l’osservatore ha sull’oggetto stesso. In secondo luogo, il progressivo dilatarsi dei confini disciplinari, che da un lato porta l’epidemiologia verso l’infinitamente grande della dimensione sociale (la molteplicità dei fattori che incidono sulla presenza delle patologie indagate), dall’altro verso l’infinitamente piccolo dell’inda­gine molecolare e della relazione tra malattie e genetica. E ancora, il tema del livello di certezza delle risultanze e delle procedure di inda­gine: se è necessario opporsi alla sudditanza passiva al dominio e alla presunzione di onnipotenza della tecnica, tuttavia l’indagine scientifica deve comunque seguire procedure rigorose e produrre le condi­zioni della propria "contestabilità" (come risultato della accountability), tali da produrre risultati affidabili all’interno di un determinato margine di errore. Tra i numerosi altri temi caldi affrontati, particolare pregnanza riveste il principio di precauzione; anche per esso, come per le altre tematiche principali considerate, gli autori propongono una interpretazione e applicazione anti-ideologica, come strumento in grado di fornire indicazioni empiriche per la decisione sulle misure da adottare in tema di controllo e monitoraggio ambientale e sanitario.

La fiducia nella certezza (relativa) delle procedure scientifiche e nella essenzialità della relazione tra gli uomini come produttrice di conoscenza (da Kant a Habermas, sono molti i rimandi a pensatori del dialogo) è un valore anche etico, che percorre tutto il volume, e che trova negli ultimi due capitoli una più estesa argomentazione, sotto il profilo etico e sotto quello comunicativo, ma eticamente fondato. Sopportare e gestire positivamente la società del rischio è possibile solo in un quadro di forte comunicazione sociale, in cui prevalga, tra i principi dell’89, il terzo, la fraternit. Come dice Elena Pulcini nel suo ultimo libro, si tratta di passare dalla "paura di" alla "paura per". Questa pare una tesi in sintonia con quella degli autori, che concludono la loro fatica insistendo sui valori della partecipazione e della comunità, sia come elementi della costruzione scientifica (come già sopra ricordato), sia come essenziali strumenti di riappropriazione in modo etico dell’ambiente umano e naturale.

Una sola avvertenza: è fondamentale che la "comunità" sia vista con gli occhiali della complessità, utilizzati in tutta l’opera. Bisogna infatti tenere presente che è in fondo in nome di valori "comunitari" non meno storicamente fondati di quelli invocati dallo studio che si  producono tutt’ora le esclusioni, le discriminazioni e – anche – gli approcci Nimby. Comunità come tribù, comunità come elemento microidentitario primitivo e "dialettale", sono strutture culturali e antropologiche tutt’altro che superate e assai insidiose: la faccia cattiva della globalizzazione? Volume di grande interesse, dunque, i cui molti temi di riflessione sono sempre accompagnati da analisi di casi concreti, decisamente istruttive, soprattutto per quelli che hanno la testa ancora divisa in due, come si diceva all’inizio.

 

3 marzo 2010

Estratto dalla recensione di Mauro Bompani (Arpa Emilia-Romagna) pubblicata su ARPA Rivista n. 4 luglio-agosto 2009.

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