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Tutti i rischi della sovradiagnosi

“Un tempo le persone chiedevano di essere curate perché si sentivano ammalate, oggigiorno si incoraggiano le persone soggettivamente sane a sottoporsi a tutta una serie di esami diagnostici preventivi per rassicurarle di non essere «ammalate». Il complesso medico-industriale ha sviluppato tecnologie in grado di identificare le più piccole anomalie, ha modificato le soglie che definiscono la «normalità» e «creato» nuove malattie. La grande maggioranza di queste «anomalie» o pseudo-malattie scoperte in persone soggettivamente sane sono inconsistenti, cioè non daranno sintomi o problemi nel corso della vita”. Si apre così l’introduzione di Gianfranco Domenighetti al libro Sovradiagnosi, di Gilbert Welch, da poco pubblicato anche in Italia e presentato al congresso nazionale dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, in una sessione realizzata in collaborazione con la Associazione Alessandro Liberati.

sovradiagnosiViviamo un’epoca in cui ci viene chiesto di essere sempre in forma perfetta e di considerare i segni del tempo che passa, le rughe, la rottura dei capillari superficiali, i piccoli o grandi acciacchi dovuti all’età, come qualcosa da nascondere, di cui vergognarsi e da cercare di esorcizzare in tutti i modi”, scrivono Laura Amato e Marina Davoli presentando il libro ai lettori italiani. Così proseguono le curatrici dell’edizione: “La salute fisica, molto meno quella psichica, viene perseguita non solo per migliorare la qualità delle nostre vite ma come un dovere morale. Dobbiamo quindi fare ogni sforzo per essere – o quantomeno per apparire – sani e forti il più a lungo possibile, e poco importa se questi sforzi – oltre ad essere a volte tristemente ridicoli – potranno poi arrecare danni ai singoli individui, paradossalmente peggiorando a volte il loro stato di salute, ed alla società, devolvendo risorse economiche, sempre più scarse, ad interventi la cui efficacia non è chiaramente dimostrata e soprattutto, sottraendole ad interventi più utili ed efficaci.”

Assistiamo ad una collettiva negazione del processo di invecchiamento e, conseguentemente, della realtà della morte. “Tutto questo – sottolineano Amato e Davoli – ha portato negli ultimi decenni ad un grande sviluppo della diagnostica precoce che, anche attraverso le campagne di screening, ha lo scopo di individuare sempre più precocemente i segni di patologie ancora asintomatiche.” Come scrive Domenighetti, “diverse analisi dimostrano l`entusiasmo popolare verso la diagnosi precoce; una ha mostrato come il 73% degli americani preferisce sottoporsi a un total body scanner invece che ricevere un regalo di 1.000 dollari, mentre il 66% è disposto a sottoporsi a un test di diagnosi precoce anche per un tumore per il quale non esiste nessuna cura. Il 50% delle donne americane che non hanno più il collo dell’utero a seguito di isterectomia totale continua comunque a sottoporsi al test per la diagnosi precoce del cancro al collo dell`utero (Pap-test). Perfino una significativa proporzione ( dal 6 al 27% ) di pazienti affetti da tumori incurabili in stadio avanzato continua a sottoporsi a screening di diagnosi precoce per altri tumori.”

Nel libro, Welch e i suoi collaboratori della Darmouth University approfondiscono proprio questo: l’inarrestabile espansione della medicina e della crescente tendenza a fare diagnosi. “Troppo spesso – scrivono Amato e Davoli – vengono considerati utili degli interventi solo perché sono molto prescritti o perché corrispondono alle aspettative, reali o indotte, più popolari in quel determinato periodo e contesto. Un rigoroso esame delle prove disponibili relative agli interventi sanitari, siano essi farmacologici, chirurgici, psicologici o diagnostici e del rapporto rischi/benefici sarebbe auspicabile sia sotto il profilo etico che economico.” Come affermava circa quarant’anni fa Archie Cochrane, “le risorse economiche sono e saranno sempre finite e dovrebbero essere usate per offrire in maniera equa alla popolazione interventi sanitari la cui efficacia sia stata dimostrata all’interno di studi scientificamente validi”.

“Molta strada è stata fatta verso una più rigorosa valutazione di efficacia degli interventi terapeutici – concludono le curatrici – si è certamente alzata l’asticella che segnava i livello minimo oltre il quale giudicare efficace un intervento terapeutico, ma non ci siamo forse accorti in tempo che la strategia in atto non era più solo quella dell’introduzione di nuovi farmaci spesso con scarso valore aggiunto, ma quello di aumentare la popolazione bersaglio di possibili trattamenti, quella di creare una popolazione di malati e conseguente bisogno di trattamento. Per anni sono stati e sono condotti studi che valutano la qualità di nuovi test diagnostici solo per la capacità di un test di fare diagnosi rispetto al test già disponibile. Ma in termini di prognosi, qual è l’impatto del nuovo test? Si contano sulle dita di una mano gli studi che valutano quanto un nuovo test, oltre ad individuare più casi, rischi di innescare un meccanismo diagnostico terapeutico che faccia più bene che male. Questo libro è un contributo per aprire una discussione su un tema, quello della diagnosi precoce, in cui spesso si sorvola sulla necessità di un esame rigoroso delle evidenze disponibili e si accetta tacitamente l’assioma per cui non è necessario una valutazione continua e rigorosa: la diagnosi precoce è utile e basta.”

In conclusione? Domenighetti affida a Ludovico Ariosto il compito di tirare le fila, con una citazione che lui stesso, Domenighetti, ha ormai reso celebre tra gli epidemiologi internazionali: “Un cavaliere, racconta Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso, era avvezzo, al termine dei banchetti, a invitare gli ospiti a sottoporsi a quello che oggigiorno si chiamerebbe un test predittivo: la prova consisteva nel vuotare un gran bicchiere colmo di vino senza distogliere la bocca dal calice. Se qualcuno si sbrodolava, ciò significava che la sua donna lo cornificava. Stranamente, dice l’Ariosto, i commensali, forse già ben avvinazzati, con gioia facevano a gara nel sottoporsi a tale prova. Molti si sbrodolavano e allora il loro animo da gioioso si mutava in tetro ed ansioso. Rinaldo ha già il calice in mano e sta per accettare la prova, ma ci ripensa e decide di non farla, dicendo: “Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar, cercasse. Mia donna è donna, et ogni donna è molle: lasciàn star mia credenza come stasse. Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova: che poss’io megliorar per farne prova?”.


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