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Un libro che sa di grappa
Un libro che sa di grappa
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Luigi Ferrannini, Quaderni italiani di Psichiatria, su Disturbi psichiatrici e cure primarie |
![]() Semplificando, è un libro da leggere, da studiare, da avere sempre sulla scrivania. Nondimeno, se ci concediamo un momento di riflessione, durante la lettura emerge subito una serie di domande: come mai solo ora questi problemi si impongono e non sono più eludibili? Dove e perché ci sono stati errori, oppure dove sono oggi i possibili rischi di un approccio così ragionevole e praticabile? Rifuggendo dalla tentazione, come psichiatri, di pensare "Bene, è faticoso trattare tutte le persone affette da disturbi psichiatrici di vario tipo, che se ne occupino anche altri, senza scaricare tutto su di noi!", non possiamo tuttavia non chiederci – prima, mentre e forse anche dopo avere letto il libro di Asioli e Berardi – come mai il "continente inesplorato" sia rimasto per tanto tempo fuori dall’interesse della maggior parte degli specialisti e dei medici generalisti (interesse che in Italia, non dimentichiamolo, si fa strada solo negli anni Novanta), pur essendo stato "scoperto" da oltre trent’anni. Michele Tansella, citando nella sua lucida presentazione l’ultima intervista a Shepherd (1), non rinuncia a ricordarci – attraverso le parole dello stesso Shepherd – come l’«orribile fatto» fosse che «gli psichiatri sapevano poco dei disturbi mentali, perché non avevano visto più che una minuscola porzione di quei disturbi»; ma anche che quelle pionieristiche ricerche erano considerate «freddamente dagli psichiatri, che erano terrificati dalle implicazioni del nostro lavoro», ed «eravamo ignorati dai medici di base, che erano presi da Michael Balint da una parte e dall’industria farmaceutica dall’altra». E allora, spinti – lo confessiamo – dai nostri tratti ossessivi, siamo andati a rivedere come il problema era stato posto in due "testi sacri" per chi si sia interessato allo sviluppo della Psichiatria di comunità in Italia, ai quali siamo particolarmente affezionati e che sono tra quei pochi che vorremmo preservati dalla polvere e dall’oblio. L’approccio epidemiologico in psichiatria, a cura di Michele Tansella (2), pubblicato nel 1985 – in uno scenario ancora dominato dal rapporto tra il superamento delle istituzioni manicomiali e lo sviluppo dei servizi di comunità – fin dall’introduzione enfatizzava ilmodello di J.K. Wing della community care, definita «responsible, comprehensive and integrated»; e il capitolo di P. Williams sui disturbi psichiatrici e la medicina di base, partendo dal "modello teorico" di Goldberg e Huxley (ma perché "teorico", ci chiediamo ora) rappresentava un’organizzazione su tre livelli (sostituzione, invio allo specialista, collegamento strutturato), in linea con le conclusioni del gruppo di lavoro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità su "Psichiatria e Medicina di base" del 1973 (in Italia siamo solo agli inizi dello sviluppo del movimento antistituzionale che avrebbe portato alla riforma psichiatrica): «Il medico di base […] dovrà rivestire un ruolo-guida nell’assistenza psichiatrica […] La domanda cruciale non è tanto come il medico possa integrarsi nei servizi di salute mentale, quanto piuttosto come lo psichiatra possa collaborare nel modo più funzionale con i servizi sanitari di base [e ci pare ancora oggi questo il problema cruciale], allo scopo di aumentare l’efficacia degli interventi del medico di base nella gestione dei pazienti con disturbi psichiatrici». Psichiatria di comunità. Cultura e pratica, curato dallo stesso Asioli insieme ad A. Ballerini e G. Berti Ceroni (3) ed edito nel 1993, non affronta direttamente il problema dei rapporti con il circuito delle cure primarie che viene solo sfiorato marginalmente in alcuni contributi. Questa breve parentesi ossessiva solo per ricordare che l’interesse per il tema del libro ha avuto nel nostro Paese uno strano percorso: preso in considerazione nella fase iniziale della trasformazione legislativa e operativa dell’assistenza psichiatrica – prevalentemente sull’onda dell’approccio epidemiologico, piuttosto che delle scelte organizzative – e dimenticato negli anni Ottanta – dedicati alla costruzione dei Servizi territoriali e ospedalieri e, con alterne vicende, alla chiusura degli ospedali psichiatrici e all’attivazione di strutture riabilitative residenziali, cioè alla presa in carico di pazienti affetti dai cosiddetti "disturbi mentali gravi" (come se la gravità fosse un astratto principio gerarchico e non dipendesse da un intreccio di fattori, clinici ed extraclinici, dall’espressività psicopatologica alla disabilità, dalla precocità dell’intervento alla continuità della presa in carico e alla forza della rete di supporto sociale) – assume una centralità parallelamente alla crisi dei sistemi di Psichiatria di comunità (anche questa multifattoriale, dall’autorefenzialità alla saturazione, all’isolamento, a nuove forme di delega) e allo sviluppo dei sistemi di cure primarie nel nostro Paese. Ora, se non ci è sembrato che in Italia negli anni Settanta-Ottanta i vecchi medici di famiglia e/o di base che dir si voglia fossero tutti impegnati ad analizzare le dinamiche del rapporto medico-paziente in gruppi Balint o si dedicassero a visitare e conseguentemente prescrivere psicofarmaci a pazienti affetti da disturbi psichiatrici, crediamo che quanto accadeva in Gran Bretagna negli anni Sessanta – a fronte dello sviluppo storico in quel Paese dei sistemi di cure primarie e del ruolo del general pratictioner – si è proposto in Italia solo nell’ultimo decennio, con il cambiamento generazionale, formativo e istituzionale della Medicina Generale territoriale, e anche con la diffusione di nuovi trattamenti farmacologici (pensiamo, per esempio, all’introduzione nel mercato degli antidepressivi non triciclici) direttamente prescrivibili dal non specialista, con le conseguenti spinte anche delle aziende farmaceutiche produttrici. Ma allora, se queste considerazioni mirano a definire l’importanza strategica del tema e, quindi, del libro di Asioli e Berardi, in che cosa esso si differenzia da altre pubblicazioni precedenti, anche degli stessi autori? Alcune questioni ci paiono importanti.
Questi e altri pensieri, anche contraddittori, ci ha mosso la lettura del libro di Asioli e Berardi, che ringraziamo per la determinazione e l’impegno. Riteniamo pessimistica l’affermazione di Shepherd nella già citata intervista – «Nella professione psichiatrica […] non credo che il livello sia sufficientemente alto. Perciò o si fa qualcosa di radicale per migliorare l’intera situazione o dovremo ammettere la sconfitta» – anche perché questo libro sa proprio di grappa, "fatta di testa, di corpo e di coda". 11 marzo 2009 |
Recensione pubblicata su Quaderni italiani di Psichiatria, Giugno 2008; n. XXVII: 79-81
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