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Un libro che sa di grappa

Un libro che sa di grappa
 
 
cover Recensire un libro che interessa un’area tematica negli ultimi anni centrale per la politica sanitaria e per la riorganizzazione dei sistemi di Psichiatria di comunità, peraltro scritto da amici che da tempi non sospetti si occupano di questi problemi, è compito facile e scontato o, al tempo stesso, significativamente complesso.

Semplificando, è un libro da leggere, da studiare, da avere sempre sulla scrivania. Nondimeno, se ci concediamo un momento di riflessione, durante la lettura emerge subito una serie di domande: come mai solo ora questi problemi si impongono e non sono più eludibili? Dove e perché ci sono stati errori, oppure dove sono oggi i possibili rischi di un approccio così ragionevole e praticabile?

Rifuggendo dalla tentazione, come psichiatri, di pensare "Bene, è faticoso trattare tutte le persone affette da disturbi psichiatrici di vario tipo, che se ne occupino anche altri, senza scaricare tutto su di noi!", non possiamo tuttavia non chiederci – prima, mentre e forse anche dopo avere letto il libro di Asioli e Berardi – come mai il "continente inesplorato" sia rimasto per tanto tempo fuori dall’interesse della maggior parte degli specialisti e dei medici generalisti (interesse che in Italia, non dimentichiamolo, si fa strada solo negli anni Novanta), pur essendo stato "scoperto" da oltre trent’anni.

Michele Tansella, citando nella sua lucida presentazione l’ultima intervista a Shepherd (1), non rinuncia a ricordarci – attraverso le parole dello stesso Shepherd – come l’«orribile fatto» fosse che «gli psichiatri sapevano poco dei disturbi mentali, perché non avevano visto più che una minuscola porzione di quei disturbi»; ma anche che quelle pionieristiche ricerche erano considerate «freddamente dagli psichiatri, che erano terrificati dalle implicazioni del nostro lavoro», ed «eravamo ignorati dai medici di base, che erano presi da Michael Balint da una parte e dall’industria farmaceutica dall’altra». E allora, spinti – lo confessiamo – dai nostri tratti ossessivi, siamo andati a rivedere come il problema era stato posto in due "testi sacri" per chi si sia interessato allo sviluppo della Psichiatria di comunità in Italia, ai quali siamo particolarmente affezionati e che sono tra quei pochi che vorremmo preservati dalla polvere e dall’oblio.

L’approccio epidemiologico in psichiatria, a cura di Michele Tansella (2), pubblicato nel 1985 – in uno scenario ancora dominato dal rapporto tra il superamento delle istituzioni manicomiali e lo sviluppo dei servizi di comunità – fin dall’introduzione enfatizzava ilmodello di J.K. Wing della community care, definita «responsible, comprehensive and integrated»; e il capitolo di P. Williams sui disturbi psichiatrici e la medicina di base, partendo dal "modello teorico" di Goldberg e Huxley (ma perché "teorico", ci chiediamo ora) rappresentava un’organizzazione su tre livelli (sostituzione, invio allo specialista, collegamento strutturato), in linea con le conclusioni del gruppo di lavoro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità su "Psichiatria e Medicina di base" del 1973 (in Italia siamo solo agli inizi dello sviluppo del movimento antistituzionale che avrebbe portato alla riforma psichiatrica): «Il medico di base […] dovrà rivestire un ruolo-guida nell’assistenza psichiatrica […] La domanda cruciale non è tanto come il medico possa integrarsi nei servizi di salute mentale, quanto piuttosto come lo psichiatra possa collaborare nel modo più funzionale con i servizi sanitari di base [e ci pare ancora oggi questo il problema cruciale], allo scopo di aumentare l’efficacia degli interventi del medico di base nella gestione dei pazienti con disturbi psichiatrici».

Psichiatria di comunità. Cultura e pratica, curato dallo stesso Asioli insieme ad A. Ballerini e G. Berti Ceroni (3) ed edito nel 1993, non affronta direttamente il problema dei rapporti con il circuito delle cure primarie che viene solo sfiorato marginalmente in alcuni contributi.

Questa breve parentesi ossessiva solo per ricordare che l’interesse per il tema del libro ha avuto nel nostro Paese uno strano percorso: preso in considerazione nella fase iniziale della trasformazione legislativa e operativa dell’assistenza psichiatrica – prevalentemente sull’onda dell’approccio epidemiologico, piuttosto che delle scelte organizzative – e dimenticato negli anni Ottanta – dedicati alla costruzione dei Servizi territoriali e ospedalieri e, con alterne vicende, alla chiusura degli ospedali psichiatrici e all’attivazione di strutture riabilitative residenziali, cioè alla presa in carico di pazienti affetti dai cosiddetti "disturbi mentali gravi" (come se la gravità fosse un astratto principio gerarchico e non dipendesse da un intreccio di fattori, clinici ed extraclinici, dall’espressività psicopatologica alla disabilità, dalla precocità dell’intervento alla continuità della presa in carico e alla forza della rete di supporto sociale) – assume una centralità parallelamente alla crisi dei sistemi di Psichiatria di comunità (anche questa multifattoriale, dall’autorefenzialità alla saturazione, all’isolamento, a nuove forme di delega) e allo sviluppo dei sistemi di cure primarie nel nostro Paese.

Ora, se non ci è sembrato che in Italia negli anni Settanta-Ottanta i vecchi medici di famiglia e/o di base che dir si voglia fossero tutti impegnati ad analizzare le dinamiche del rapporto medico-paziente in gruppi Balint o si dedicassero a visitare e conseguentemente prescrivere psicofarmaci a pazienti affetti da disturbi psichiatrici, crediamo che quanto accadeva in Gran Bretagna negli anni Sessanta – a fronte dello sviluppo storico in quel Paese dei sistemi di cure primarie e del ruolo del general pratictioner – si è proposto in Italia solo nell’ultimo decennio, con il cambiamento generazionale, formativo e istituzionale della Medicina Generale territoriale, e anche con la diffusione di nuovi trattamenti farmacologici (pensiamo, per esempio, all’introduzione nel mercato degli antidepressivi non triciclici) direttamente prescrivibili dal non specialista, con le conseguenti spinte anche delle aziende farmaceutiche produttrici.

Ma allora, se queste considerazioni mirano a definire l’importanza strategica del tema e, quindi, del libro di Asioli e Berardi, in che cosa esso si differenzia da altre pubblicazioni precedenti, anche degli stessi autori? Alcune questioni ci paiono importanti.

  • La distinzione dei disturbi psichiatrici in "comuni", "impegnativi" e "che coinvolgono più agenzie sanitarie", indubbiamente utile sul piano pratico, non va assunta come una semplificazione (riduzionista?) della complessità psicopatologica e nosografica della vasta gamma dei disturbi psichiatrici (o, se vogliamo utilizzare un’espressione desueta ma ancora pregnante, delle malattie mentali, a condizione di ricordarci che la mente funziona attraverso il cervello e che le malattie non sono definite dalle discipline e dalle teorie, ma che queste dovrebbero cercare – con umiltà – di fornire le prime spiegazioni e soluzioni), pena il rischio della costruzione di una "psichiatria minore", prt-à-porter, insomma per non specialisti! Non è il necrologio della nosografia moderna, globalizzata, neokraepeliniana, ma una suggestiva modalità di rendere avvicinabile una sofferenza, spesso perturbante. Crediamo quindi che questa tassonomia non neghi l’intrinseca complessità, e al contempo non la trasformi in alibi per non ascoltare, non capire, non intervenire. Oltre il paradigma di una follia definita dalla sua incomprensibilità e alterità, la medicina moderna può accostarsi alle persone affette da disturbi psichiatrici (e sono tante, quanto un "continente,inesplorato") in scienza e coscienza, senza deleghe a priori e senza risposte superficiali, sentendosi pienamente coinvolta e assumendoci tutti la propria quota di responsabilità. Non solo disturbi d’ansia e dell’umore, ma – con obiettivi differenziati – anche disturbi maggiori (e quindi impegnativi, ma neppure i primi sono da meno sotto questo profilo) e disturbi di confine (diagnosi multiple), non solo per gli aspetti psicopatologici, ma soprattutto per le artificiose separazioni di competenze tra servizi.
  • L’attenzione al modello di intervento, in questo libro centrato sulla clinica più che sull’organizzazione della risposta, rimanda implicitamente all’assunzione della sfida dell’appropriatezza clinica di cui l’aspetto organizzativo è condizione necessaria ma non sufficiente. Certo non va sottovalutato come nuovi model-li organizzativi delle cure primarie (Case per la Salute, Unità Territoriali di Assistenza Primaria e altro ancora), e quindi un nuovo e più forte ruolo del medico di Medicina Generale all’interno del Servizio Sanitario pubblico – e del pediatra di libera scelta ancora poco chiamato in causa, se pensiamo ai problemi connessi con la diagnosi precoce dei disturbi psichici dell’infanzia e dell’adolescenza -, apriranno nuove opportunità, e pure delicati equilibri tra sistemi specialistici (il Dipartimento di Salute Mentale) e sistemi generalisti, sui quali si dovrà riflettere con grande attenzione, anche per evitare nuovi isolamenti e scollamenti, non senza buone ragioni delle parti in causa.
  • Questo modello di intervento – in altre occasioni denominato collaborative care – andrà nel tempo valutato rispetto a indicatori di public health: per esempio, indicatori di focusing, di coverage, di impatto sui costi della spesa farmaceutica (sappiamo come essa sia particolarmente aumentata per alcune classi di psicofarmaci, anche per effetto della prescrivibilità da parte del medico di Medicina Generale), analisi di costi/utilità nella prevenzione dei ricoveri ospedalieri e della disabilità. E anche con indicatori di outcome clinico come, per esempio, un miglioramento dell’adesione al trattamento e una riduzione dei tassi di morbilità e di mortalità per patologie somatiche di vario tipo.
  • Crediamo infine necessario avviare, a partire dai contributi e dagli stimoli offerti dal libro, un’attenta riflessione sui problemi della formazione del medico di Medicina Generale, e più i generale di tutti i laureati in Medicina e delle altre professioni sanitarie, in tema di riconoscimento e trattamento di disturbi psichiatrici; sull’attenzione al corpo del paziente e ai fattori di rischio connessi con la patologia psichiatrica e trattamenti, come luogo privilegiato di collaborazione tra medico di Medicina Generale e specialista, e una maggiore possibilità di integrazione con altri interventi del campo "psi", dalle psicoterapie ai vario tipo agli interventi psicoeducazionali e di counselling, attraverso precise indicazioni e l’utilizzo di strumenti di monitoraggio e valutazione; sul rischio di una semplificazione della complessità della sofferenza mentale e dei disturbi psichiatrici, attraverso il prevalere di un approccio sintomatico culturalmente e tecnicamente riduzionista, sostanzialmente dipendente dal mercato e soprattutto poco attento al nesso tra sofferenza e persona, sul quale si gioca gran parte dell’esito del trattamento.

Questi e altri pensieri, anche contraddittori, ci ha mosso la lettura del libro di Asioli e Berardi, che ringraziamo per la determinazione e l’impegno. Riteniamo pessimistica l’affermazione di Shepherd nella già citata intervista – «Nella professione psichiatrica […] non credo che il livello sia sufficientemente alto. Perciò o si fa qualcosa di radicale per migliorare l’intera situazione o dovremo ammettere la sconfitta» – anche perché questo libro sa proprio di grappa, "fatta di testa, di corpo e di coda".

11 marzo 2009

 
Recensione pubblicata su Quaderni italiani di Psichiatria, Giugno 2008; n. XXVII: 79-81

Bibliografia

  1. Healy D. Michael Shepherd intervistato da David Healy (Londra, giugno 1995). EPS 2003;12(1):28-42.
  2. Tansella M (a cura di). L’approccio epidemiologico in psichiatria. Torino: Bollati Boringhieri, 1985.
  3. Asioli F, Ballerini A, Berti Ceroni G (a cura di). Psichiatria di comunità. Cultura e pratica. Torino: Bollati Boringhieri, 1993.

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