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Un ponte terapeutico

 
Il breve testo curato da Guido Tuveri ("Saper ascoltare, saper comunicare", Il Pensiero Scientifico Editore 2005, ndr) sull’ascolto e sulla comunicazione in medicina è per me una gradita sorpresa. Esso dimostra infatti che l’importanza del comunicare bene, per molto tempo percepita come una dote superata da vecchio medico di altri tempi, viene oggi rivalutata appieno.

Quando, oltre quindici anni fa, ho cominciato con pochi volonterosi collaboratori a organizzare corsi di formazione alla comunicazione e alle abilità di counselling per i medici, un esponente della nostra categoria – all’epoca piuttosto noto – mi scrisse che sì, trattatavasi di una cosa di un certo interesse, che però per il medico costituiva, testuali parole, un “optional”, un lusso da amatori. Bene, questo libro è una prova che la buona comunicazione non è un optional n un lusso, come del resto sta a dimostrare la vasta bibliografia in proposito (in gran parte peraltro non italiana) e la presenza di riviste specifiche di elevata qualità.

Qualitativamente rilevante risulta anche il libro di cui parliamo, che in circa 150 pagine concise e chiare affronta i principali temi della comunicazione professionale.
La scelta degli Autori è stata quella di privilegiare gli aspetti metodologici rispetto a quelli esperienziali, sacrificando gli esempi tratti dalla pratica clinica quotidiana a vantaggio di una sintetica chiarezza espositiva. Ne risulta uno snello manuale che individua linee-guida di comportamento atte a orientare il medico nel complesso percorso della comunicazione professionale.

Cosa rende difficile comunicare con i pazienti e i loro familiari? Quali sono le barriere che dividono gli attori? Qual è la responsabilità del professionista nel creare o nel potenziare o al contrario nel ridurre quelle barriere? Poich la gestione del rapporto con il paziente è, e non può essere diversamente, compito del medico, è ovvio che spetti a quest’ultimo costruire il ponte in grado di scavalcare il fossato che divide i due mondi: quello del medico e quello del paziente. Quel ponte è la relazione terapeutica.
La costruzione del ponte è certo compito del medico. Costruire non significa però progettare: la progettazione, se è davvero una relazione quella che si vuole costruire, deve essere fatta assieme al paziente: è un’opera comune, è cioè lo spazio della comunicazione.

Il mondo del medico ha una duplice radice. Una è quella epistemologica e pragmatica (anamnesi, costruzione di una ipotesi diagnostica, verifica o falsificazione dell’ipotesi, intervento terapeutico…), che ha basi scientifiche ed è legata alla specifica competenza professionale; essa lo definisce in quanto medico, in quanto scienziato ed è di conseguenza interamente nelle sue mani.
Esiste poi una seconda radice che definisce il medico come persona ed è legata ai suoi valori, alle sue convinzioni, ai suoi pregiudizi, alle sue scelte, alle sue emozioni… In questo ambito il medico si confronta col paziente in modo paritario, perché si tratta di un mondo non valutabile in termini statistici o, per dirla con un termine oggi corrente, non evidence-based; i valori del medico e quelli del paziente hanno la medesima importanza e la differenza tra di essi è non solo legittima ma auspicabile.
Il medico non può fingere di entrare nella relazione solo con la sua metà pragmatica, scientifica: le relazioni sono sempre e comunque comunicazioni tra persone, a questo non si sfugge.

E allora, prima di esplorare il mondo del paziente, il medico deve cominciare a esplorare il proprio mondo: “Non è pensabile – è giustamente detto nel libro – eliminare la soggettività del medico”. E il medico ha convinzioni, ha certezze, ha dubbi, ha paure, ha emozioni, ha speranze, ha aspettative che irrompono spontaneamente nella relazioni e fanno sì che l’altro risulti simpatico, odioso, irritante, aggressivo, rispettoso, obbediente, inaffidabile, indisciplinato… Se si lascia fluire la spontaneità, il comportamento del medico nella relazione sarà dettato dalle sue reazioni immediate, nascerà cioè all’interno del suo mondo nella completa ignoranza del mondo dell’altro. Per tornare alla metafora, il medico progetterà il ponte tutto da solo, un bel ponte magari: ma poi non saprà se nel territorio dell’altro, che gli è ignoto, quel ponte poggerà su un terreno solido o franoso. La spontaneità, anche se a fin di bene, è la peggior nemica della comunicazione professionale.
Ottimo quindi il consiglio degli Autori di studiare le propria modalità comunicative, verbali e non verbali, ad esempio mediante audio e videoregistrazioni: si tratta di una tecnica che anche noi usiamo da anni, e che spesso riserva ai medici che osservano i loro colloqui filmati sorprese non necessariamente piacevoli.

Prima di affogare il paziente in un mare di informazioni, prescrizioni, consigli, indicazioni, è quindi necessario che il medico esplori almeno un po’ l’altra riva del fossato: il mondo cioè del paziente. Anche su questo aspetto il manuale fornisce indicazioni utili e chiare. È importante sottolineare che non si sta parlando di una esplorazione di tipo psicologico: quello che ci interessa mettere in luce del mondo dell’altro sono infatti i significati che lui attribuisce a concetti o a termini che a noi appaiono ovvi e scontati, senza la pretesa di indagare il processo interiore che tali significati ha reso possibili. Si tratta in altre parole di un intervento di tipo antropologico, che ha lo scopo di farci intravedere l’universo culturale del paziente e il suo scostamento rispetto al nostro. Lo spazio della relazione è quello in cui si costruisce insieme all’altro un mondo nuovo di significati almeno in parte condivisi: per citare Martin Buber, è il passaggio dalla parola fondamentale “io-esso” alla parola fondamentale “io-tu”.

Vorrei sottolineare altre osservazioni sparse nel testo, che sia pur nella deliberata brevità risultano a mio avviso fondamentali in termini di apprendimento della comunicazione professionale.
Innanzi tutto l’importanza della acquisizione di counselling skill, di abilità comunicative non spontanee nella protezione del medico: un medico stressato o in burnout è una persona sofferente oltre che in genere un medico poco efficace. La nostra esperienza ci ha mostrato come anche il semplice uso di alcune tecniche comunicative di base sia in grado di migliorare il benessere del medico in modo notevole.
Un altro aspetto importante che gli Autori sottolineano è l’assertività: la capacità di contrapporsi, di dire di no senza risultare aggressivi e senza scatenare una escalation simmetrica, una guerra per decidere chi è che comanda qui, chi di noi vince e chi perde. Un medico poco assertivo si lascia facilmente trascinare entro contesti che non è poi in grado di gestire o, all’opposto, tende ad assumere atteggiamenti difensivi o aggressivi, e addio empatia…
Proprio l’empatia, più volte giustamente citata, meriterebbe forse un discorso più ampio per evitare che essa venga confusa, come spesso avviene, con la simpatia, con l’oblatività, col buon cuore ecc. Essa è invece la ricostruzione immaginaria della esperienza dell’altro: definizione che riprendo da Martha Nussbaum e che richiede un’analisi attenta e accurata. Certo, come dicono gli Autori, non si può insegnare l’empatia come fosse una disciplina, ma definirne i presupposti, facilitarla evitando la perdita della giusta distanza è possibile.
Ai vantaggi che gli Autori attribuiscono alla medicina patient centred aggiungerei quello di agevolare la difficile comunicazione sul consenso informato e quella con pazienti che hanno navigato per giorni o settimane su Internet. Le abilità di counselling sono uno dei migliori antidoti a quello che, in un recente articolo sul British Medical Journal, viene pittorescamente definito il passaggio da una medicina basata sul “primum non fare danni” a una basata sul “primum pararsi il sedere”: è quella che si chiama medicina difensiva.

Il capitolo sulla comunicazione di cattive notizie è interessante perché nasce dall’esperienza diretta degli Autori, tutti oncologi, e arricchisce il classico testo di Buckman, tuttora fondamentale ma non recentissimo (l’edizione inglese è del 1992) e non sempre adeguato alla realtà italiana.
Molto opportunamente nel testo viene sottolineata l’importanza di mantenere viva nel paziente per quanto possibile la speranza, senza tuttavia favorire illusioni e senza dire bugie: anche in questo difficile ambito le abilità comunicative non spontanee si rivelano indispensabili.

In sostanza considero questo libro uno strumento molto utile ai medici che vogliano avvicinarsi al tema complesso della comunicazione professionale e del counselling in ambito sanitario.

 

8 giugno 2005

 

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