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Un ponte terapeutico
Un ponte terapeutico |
Giorgio Bert (Dipartimento Comunicazione Counselling Salute, Istituto Change di Counselling Sistemico, Torino) su "Saper ascoltare, saper comunicare", di Guido Tuveri |
![]() Quando, oltre quindici anni fa, ho cominciato con pochi volonterosi collaboratori a organizzare corsi di formazione alla comunicazione e alle abilità di counselling per i medici, un esponente della nostra categoria – all’epoca piuttosto noto – mi scrisse che sì, trattatavasi di una cosa di un certo interesse, che però per il medico costituiva, testuali parole, un “optional”, un lusso da amatori. Bene, questo libro è una prova che la buona comunicazione non è un optional n un lusso, come del resto sta a dimostrare la vasta bibliografia in proposito (in gran parte peraltro non italiana) e la presenza di riviste specifiche di elevata qualità. Qualitativamente rilevante risulta anche il libro di cui parliamo, che in circa 150 pagine concise e chiare affronta i principali temi della comunicazione professionale. Cosa rende difficile comunicare con i pazienti e i loro familiari? Quali sono le barriere che dividono gli attori? Qual è la responsabilità del professionista nel creare o nel potenziare o al contrario nel ridurre quelle barriere? Poich la gestione del rapporto con il paziente è, e non può essere diversamente, compito del medico, è ovvio che spetti a quest’ultimo costruire il ponte in grado di scavalcare il fossato che divide i due mondi: quello del medico e quello del paziente. Quel ponte è la relazione terapeutica. Il mondo del medico ha una duplice radice. Una è quella epistemologica e pragmatica (anamnesi, costruzione di una ipotesi diagnostica, verifica o falsificazione dell’ipotesi, intervento terapeutico…), che ha basi scientifiche ed è legata alla specifica competenza professionale; essa lo definisce in quanto medico, in quanto scienziato ed è di conseguenza interamente nelle sue mani. E allora, prima di esplorare il mondo del paziente, il medico deve cominciare a esplorare il proprio mondo: “Non è pensabile – è giustamente detto nel libro – eliminare la soggettività del medico”. E il medico ha convinzioni, ha certezze, ha dubbi, ha paure, ha emozioni, ha speranze, ha aspettative che irrompono spontaneamente nella relazioni e fanno sì che l’altro risulti simpatico, odioso, irritante, aggressivo, rispettoso, obbediente, inaffidabile, indisciplinato… Se si lascia fluire la spontaneità, il comportamento del medico nella relazione sarà dettato dalle sue reazioni immediate, nascerà cioè all’interno del suo mondo nella completa ignoranza del mondo dell’altro. Per tornare alla metafora, il medico progetterà il ponte tutto da solo, un bel ponte magari: ma poi non saprà se nel territorio dell’altro, che gli è ignoto, quel ponte poggerà su un terreno solido o franoso. La spontaneità, anche se a fin di bene, è la peggior nemica della comunicazione professionale. Prima di affogare il paziente in un mare di informazioni, prescrizioni, consigli, indicazioni, è quindi necessario che il medico esplori almeno un po’ l’altra riva del fossato: il mondo cioè del paziente. Anche su questo aspetto il manuale fornisce indicazioni utili e chiare. È importante sottolineare che non si sta parlando di una esplorazione di tipo psicologico: quello che ci interessa mettere in luce del mondo dell’altro sono infatti i significati che lui attribuisce a concetti o a termini che a noi appaiono ovvi e scontati, senza la pretesa di indagare il processo interiore che tali significati ha reso possibili. Si tratta in altre parole di un intervento di tipo antropologico, che ha lo scopo di farci intravedere l’universo culturale del paziente e il suo scostamento rispetto al nostro. Lo spazio della relazione è quello in cui si costruisce insieme all’altro un mondo nuovo di significati almeno in parte condivisi: per citare Martin Buber, è il passaggio dalla parola fondamentale “io-esso” alla parola fondamentale “io-tu”. Vorrei sottolineare altre osservazioni sparse nel testo, che sia pur nella deliberata brevità risultano a mio avviso fondamentali in termini di apprendimento della comunicazione professionale. Il capitolo sulla comunicazione di cattive notizie è interessante perché nasce dall’esperienza diretta degli Autori, tutti oncologi, e arricchisce il classico testo di Buckman, tuttora fondamentale ma non recentissimo (l’edizione inglese è del 1992) e non sempre adeguato alla realtà italiana. In sostanza considero questo libro uno strumento molto utile ai medici che vogliano avvicinarsi al tema complesso della comunicazione professionale e del counselling in ambito sanitario.
8 giugno 2005 |