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Un viaggio tra psicoanalisi e archeologia

Il mensile Antiquariato su "Freud e l’arte: la collezione privata di arte antica"

Nel dicembre del 1896, due mesi dopo la morte del padre, Freud scrive all’amico Wilhelm Fliess di aver acquistato alcune copie in gesso di statue fiorentine, tra cui probabilmente una riproduzione dello “Schiavo morente” di Michelangelo, e di trovare in esse grande conforto e sollievo al suo dolore: sono questi i primi pezzi di una straordinaria collezione di arte antica che Freud ha raccolto in più di quarant’anni e che ora costituisce, grazie all’intervento della figlia Anna e di Mauriel Gardiner, il Freud Museum di Londra.

Freud era affascinato dall’archeologia, che si avviava solo in quegli anni a divenire una vera e propria scienza, e seguiva avidamente sui giornali europei i resoconti delle scoperte più importanti, come il ritrovamento di Troia nel 1873, o quello della tomba di Tutankhamen, portata alla luce nel 1922. Questa passione spinse Freud a comprare più di duemila oggetti antichi, soprattutto sculture, provenienti dal Vicino Oriente e dall’Asia, con una particolare predilezione per l’arte egizia, che costituisce quasi la metà della sua collezione.

Ma gli anni ’90, oltre a segnare l’inizio dell’interesse per l’archeologia, furono per Freud anni di isolamento professionale e di lotte contro l’antisemitismo. In una lettera all’amico Fliess accenna al fatto che la collezione rappresentasse per lui quasi un surrogato dei colleghi dei quali aveva dovuto fare a meno; le statuette che aveva acquistato, figure umane e di animali, erano ospitate nel suo studio, sulla scrivania, sui mobili, in ogni parte della stanza, rivolte verso di lui, come un grande uditorio. Alcune di queste, che egli prediligeva, si trovavano sempre sulla sua scrivania, come il babbuino di Thot, il dio egiziano.

Della luna, della sapienza e dell’apprendimento, un saggio cinese e una statua in bronzo di Atena, dea della guerra e delle arti, personificazione della saggezza: secondo diverse testimonianze, Freud trattava queste figure come compagni e aveva l’abitudine di accarezzare il babbuino di marmo e di salutare al mattino il suo saggio cinese. Non si trattava solo di passione collezionistica: a partire dal 1890, Freud utilizzò ampiamente nei suoi studi l’analogia tra psicanalisi e archeologia, non solo per rendere accessibile e interessante la nuova scienza, ma anche perché egli riteneva che entrambe le discipline potessero rivelare realtà perdute, mondi antichi scomparsi o trasformatisi col tempo. “Come l’archeologo ricostruisce i muri dell’edificio dai ruderi che si sono conservati”, scrive Freud nel 1937, “così procede l’analista quando trae le sue conclusioni dai frammenti di ricordi, dalle associazioni, e dalle attive manifestazioni dell’anallizzato”.

Confrontando le scoperte della psicoanalisi con quelle dell’archeologia, Freud osserva che gli aspetti primitivi della psiche, almeno nelle loro caratteristiche elementari, assomigliavano ai mondi primitivi e selvaggi, e viceversa: come Atlantidi affondate nell’Oceano, egli cercava di portare alla luce i mondi sperduti nella mente umana. Quantunque questo catalogo (“Freud e l’arte: la collezione privata di arte antica“, Roma, 1990, Il Pensiero Scientifico Editore, 192 pp., 60 euro), presentato da Peter Gay e Simona Argentieri, si basi su una selezione dei pezzi più significativi della raccolta di Freud, è sufficiente a testimoniare la competenza e la sensibilità dello studioso come collezionista ed esperto di arte antica, solo in pochissimi casi ingannato dai falsi.

 

S.F.

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