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La paura nascosta: tornare milanista
A quasi trent’anni dalla Legge Basaglia, qual è il suo punto di vista sull’attuazione e l’opportunità ancora oggi di quel provvedimento?
La legge Basaglia ha rappresentato un cambiamento epocale; se si escludono alcune esperienze regionali in Spagna e alcune negli Stati Uniti, l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui per nessun paziente viene utilizzato l’ospedale psichiatrico come struttura e forma di cura. Questo è un elemento assolutamente straordinario della legge, perché tutte le ricerche dicono che gli ospedali psichiatrici non hanno mai curato nessuno.
Quali sono le criticità della psichiatria in Italia?
La legge Basaglia norma le condizioni che possono vincolare, per ragioni correlate a problemi di salute mentale, le libertà del singolo cittadino, fissando alcuni criteri su quando possa essere ristretta tale libertà. I suoi principi, poi, hanno ispirato la revisione della legislazione di almeno una ventina di paesi, non solo in Europa: non credo ci sia alcuna esigenza di cambiare quella legge. Purtroppo, negli ultimi anni, in Italia si è fatta molta confusione rispetto a delle gravi carenze che, tuttavia, derivano dalla necessità di programmazione e di risorse. L’ambito più carente, infatti, è quello dei criteri organizzativi e applicativi, dei finanziamenti e delle risorse da dedicare alla costruzione di servizi; un settore reso ancora più difficile, in Italia, con il passaggio da un Sistema sanitario nazionale ad un Sistema sanitario regionalizzato. Se si fa un confronto tra le Regioni, si vede che le risorse dedicate alla salute mentale sono molto differenziate, così come i modelli; tali differenze offrono lo spunto per uno studio che permetta di capire quali sono i modelli più efficienti e quelli che vanno incontro a esiti migliori o a maggiore soddisfazione degli utenti.
Che rilievo ha la salute mentale nell’agenda politica attuale?
Nessuno. C’è una riduzione degli investimenti nel campo della salute mentale, e questo è un fenomeno abbastanza evidente nel corso degli ultimi anni.
Come ha deciso di intraprendere la specializzazione in Psichiatria?
Mi ha spinto un aspetto della relazione con i pazienti psichiatrici che, a differenza di altri pazienti, era assoggettata ad alcune incognite, non date per scontate: una sfida diversa da paziente a paziente. Mi attraeva questo aspetto misterioso, tale per cui per entrare nel mondo di quei primi pazienti ci fosse tutte le volte da inventarsi atteggiamenti, modalità di avvicinamento, tipi di domande e di silenzi.
Può dire di avere avuto un Maestro?
Ne ho avuti tanti. La prima persona importante è stata Franco Basaglia: il fascino che ha avuto su di me questo maestro è quello dell’esperienza concreta di quanto faceva nell’Ospedale di Gorizia. Per me e molti come me è stato davvero un grande maestro: ci ha indicato una prospettiva di lavoro che non sarebbe esistita senza di lui. Senza Basaglia non credo avrei fatto lo psichiatra pubblico.
La seconda persona è Giovanni Jervis, che è stato il mio direttore a Reggio Emilia. Non appena laureati, io e altri carissimi colleghi ci siamo trovati a lavorare in questo primo servizio di salute mentale: Jervis ci ha insegnato a essere laici e non ideologici. Spesso, ci invitava a imparare come curare la sofferenza delle persone che ci venivano affidate, invece che a fare grandi discussioni ideologiche sulla salute mentale, con grande spirito etico e con grande criticismo. Non era mai soddisfatto di quello che facevamo e, quindi, ci ha insegnato a non accontentarci. E, in quell’epoca in cui sembrava così importante la battaglia politica, ci ha insegnato a non sottovalutare l’importanza della capacità tecnica, a imparare a trattare la sofferenza delle persone come sofferenza di singoli individui, ai quali avremmo dovuto dare una risposta. E poi, non posso dimenticare Michele Risso: un grande psicanalista deceduto, purtroppo precocemente, che a Roma aveva la bontà di perdere tempo con me e con altri colleghi, come Stefano Mistura, che sono stati miei maestri anche se quasi coetanei. Da grande psicanalista, ragionava con noi su come apprendere la delicatezza della capacità terapeutica. Questo attraverso la relazione e la capacità di sopportare le reazioni forti che il paziente ci trasmette, senza confondere reazioni personali, che derivano dal nostro profondo sentire, con le reazioni provocate dal paziente. E poi tanti colleghi.
La maggiore soddisfazione professionale?
Chiudere l’Ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, che nell’epoca del suo fulgore aveva 2 mila e cinquecento posti letto, con altrettanti pazienti. Quando sono diventato direttore del Dipartimento di Salute mentale, nel 1991, questa struttura aveva ancora 232 pazienti gravi istituzionalizzati dentro l’Ospedale, nonostante fosse stato già “aperto” e fossero disponibili molti servizi dell’Unità sanitaria locale e tre scuole. È stata un’impresa, che mi ha fatto venire l’ipertensione, contro molti: contro i pregiudizi della popolazione, degli infermieri, di parte dell’amministrazione, dei giornali, dei sindacati e di molti colleghi. È stata una bella soddisfazione, però, perché avendo un brutto carattere, non c’è cosa che mi spinga a essere più pignoso che la resistenza da parte delle altre persone.
E la più grande delusione?
Vedere gli psichiatri italiani, molti colleghi, che ancora oggi sono divisi da battaglie ideologiche nelle quali i diritti dei pazienti, il loro diritto alla cura, vengono sempre citati e strumentalizzati, forse in modo inconsapevole, utilizzati per coprire battaglie di tipo personale.
Qual è la parte del suo lavoro più noiosa?
Sono fortunato. Da tre anni ho deciso di andare in pensione e, quindi, mi sono liberato della parte non più noiosa, ma certamente più faticosa: dovere, in quanto direttore di Dipartimento di Salute mentale, discutere, litigare e fare da interfaccia tra l’amministrazione e il portafoglio da un parte, e le esigenze dei pazienti e degli operatori dall’altra. E avendo avuto la fortuna-sfortuna di avere fatto il direttore del Dipartimento di Salute mentale per molti anni, prima a Reggio Emilia e poi a Bologna, posso dire che è un lavoro faticoso e ingrato.
E quella più gratificante?
Essendo in pensione oggi faccio la cosa che mi diverte di più: mi occupo di pazienti in una condizione molto più semplice. Non mi occupo più, come era a Bologna, indirettamente di 5 mila pazienti in carico, ma mi occupo di una quindicina di pazienti, che hanno la bontà di chiedermi aiuto.
Ha delle paure nascoste?
Di tornare milanista. A parte questa, ho una paura piuttosto seria che rivinca il centro-destra, grazie agli istinti suicidi del centro-sinistra, che riesce con un’abilità straordinaria a disincentivare i suoi supporter. Ma è una paura che ho più che altro per mio figlio.
Allora, ce la dica tutta, qual è la sua squadra del cuore?
Ero milanista e non lo sono più. La passione per il calcio è una passione irrazionale, emotiva, ha delle grandi idealità: mi sono trovato a dovere frustrare questa mia grande passione per colpa di molti colleghi stranieri che, quando il Presidente del Consiglio in Italia era Silvio Berlusconi, mi dileggiavano. Io mi sono vergognato e questa vergogna, che è un sentimento importante, mi ha portato a fare una cosa orribile: a uccidere un sentimento, quale era quello che io nutrivo per questa squadra, della quale mi ero innamorato perché, all’epoca, c’erano grandi campioni, ma soprattutto perché avevo la maglia rossonera del terzino, portata con poca capacità tecnica, ma molto entusiasmo.
Ha un passato da calciatore?
No. Ho un passato da pallavolista e da baskettista, ma al calcio ci giocavo da bambino e mi piaceva. Oggi, non tengo più per nessuna squadra, ma poich la passione calcistica è una passione terribilmente emotiva, tendo a confondere la mia vita e a renderla complicata, perché mio figlio è interista e quando lui vede le partite, soffro un po’ con lui. E siccome ho fatto l’università a Roma e ho molti amici romanisti tendo anche a soffrire un po’ per la Roma. Dunque, sono in una situazione di conflitto e di potenziale sofferenza severa.
In cucina preferisce stare al tavolo o ai fornelli?
In genere tendo a fare contemporaneamente tutte e due le cose; sono una persona golosa, quindi, mi piace mangiare e mi piace anche cucinare. Cerco di bilanciare le due cose, anche se poi è difficile che possa muovermi liberamente in cucina, perché in famiglia ho dei critici molto severi.
Il suo piatto preferito?
Sicuramente, un piatto a base di pesce.
Ce ne è uno in particolare?
Antipasti di pesce. Potrei citare uno dei ristoranti che ci sono in Liguria, in Toscana, o in Sicilia, o nel Lazio…
Un ristorante che consiglierebbe a un caro amico?
Consiglierei a tutti il ristorante “La Villetta” di Bibbiano, una frazione di Reggio Emilia: non si mangia pesce, ma è certamente uno dei posti più importanti del mio mondo.
Cosa ci dice a proposito dei suoi gusti musicali?
La musica mi piace tutta e non ho un autore preferito. Mi piace la musica sinfonica: Mozart più di Bach, ma in generale, gli autori mi piacciono tutti. Essendo un emiliano, sono diventato per forza di cose, un estimatore di Verdi, anche per colpa del Pensiero Scientifico Editore. La maglietta con il Va’ Pensiero l’ho indossata orgogliosamente, quando sono andato alla Corale Verdi di Parma, che è un posto straordinario che tutti dovrebbero frequentare al meglio. Mi piace la musica lirica e la musica moderna: il Blues più del Rock.
Quale libro ha sul comodino?
Ho un libro di Camilleri. In particolare, mi piacciono molto le storie del commissario Montalbano: non solo le ho lette tutte, ma le ho rilette tutte più di una volta. Devo dire, a questo proposito, che è l’unica operazione straordinaria che ha fatto la nostra schifosissima televisione pubblica.
Cosa farebbe se fosse Ministro della Salute?
Mi circonderei di uno staff di persone qualificate, capaci, ce ne sono tante in Italia e ne richiamerei anche uno dall’estero: l’attuale direttore del Mental Health Department dell’OMS, a Ginevra, Benedetto Saraceno. Credo di conoscere almeno una quarantina di colleghi, psichiatri, internisti etc., che sarebbero in grado di suggerire alle Regioni come procedere.
Nn proprio un commento,anche se in ciò che ho letto riconosco il giovane che capitava in via torcicoda/isolotto.
Sono letizia, una delle 5 “ragazze”. Stavo leggendo un libro “invecchiare con saggezza” ed. il Mulino, tradotto dall’inglese da Andrea Asioli…da lì l’associazione e la sbirciata su internet…su Fabrizio Asioli psichiatra.
Nn so se quell’andrea è l’interista con cui un po’ soffri le partite…ma mi ha fatto piacere leggerti .
Dovuto quindi almeno un saluto da parte mia.
Letizia