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Entropia femminile
Lavoro e professione
Può dire di avere avuto un Maestro?
La mia formazione è stata innanzitutto pedagogica: ho studiato pedagogia negli anni ’60, quando si cominciava a parlare di scuola attiva, gli anni del Movimento di Cooperazione Educativa. Per me, che avevo sperimentato tutte i limiti dell’educazione degli anni ’50, è stato fondamentale partecipare, giovanissima, alle prime sperimentazioni di didattica attiva nelle scuole delle periferie torinesi. Se devo pensare a un maestro penso a Francesco De Bartolomeis, il pioniere della scuola attiva in Italia. La mia passione per la didattica e il mio modo di fare formazione sono nati in quegli anni e da quelle esperienze. Poi, naturalmente, la mia storia di psicoterapeuta della famiglia mi lega a Mara Palazzoli Selvini e al gruppo del Milan Approach, che ha segnato la seconda parte della mia formazione personale.
Ha passato periodi di studi all’estero dopo la laurea? Se sì dove e per quanto tempo?
Sono stata negli Stati Uniti, nel New Jersey, per accompagnare il mio allora marito in un soggiorno di lavoro; una strana esperienza con le mie due bambine piccole, che hanno fatto le americane con estrema naturalezza per un anno: scuola americana, amici americani, lingua imparata per istinto. Ho cercato di fare come loro, ho fatto la vita delle casalinghe americane, ma ho anche visitato tutti i centri di salute mentale in cui riuscivo a farmi accogliere, frequentato workshop e corsi brevi di terapia familiare, insomma ho fatto la mamma casalinga studentessa. Un bel ricordo.
Il suo più grande successo professionale?
Quella di alcuni mesi fa: la notizia di aver ottenuto un importante finanziamento per due progetti di formazione/intervento, destinati a migliorare la qualità della comunicazione in ospedale, con l’introduzione di tecniche di counselling: uno nei reparti per la cura dell’insufficienza d’organo in età infantile all’Ospedale Regina Margherita di Torino, e il secondo finalizzato ad estendere in otto terapie intensive neonatali italiane un intervento già in atto da 5 anni nel reparto di terapia intensiva della Cattedra di neonatologia dell’Università di Torino.
E la più grande delusione?
L’attività nel settore pubblico: dal punto di vista ideologico ho sempre creduto che fosse giusto spendere le proprie energie e le proprie capacità nel servizio sanitario nazionale, per il miglioramento degli interventi rivolti ai cittadini e così via. Sono arrivata fino al punto di accettare di lavorare in Regione, nel settore formazione dell’assessorato Sanità. Un’esperienza sconfortante. La sensazione di inutilità a un certo punto è stata troppo forte, me ne sono andata. Ma resta il rimpianto di non essere riuscita a realizzare niente di quello che ho tentato di impostare, n nei servizi di territorio dove ho lavorato, n in Regione.
Qual è la parte del suo lavoro più gratificante? E quella più noiosa?
Mi dicono che sono workaholic, il mio lavoro mi piace tutto e mi gratifica tantissimo, anche perché faccio cose diversissime: la progettazione formativa parte dall’invenzione di un progetto e percorre tutte le tappe, dalla ricerca di un titolo stimolante alla presentazione al committente, alla stesura del programma di aula. Molte volte curo io stessa la creazione delle locandine e dei depliant. Poi mi occupo dei materiali didattici, cerco brani di film, invento copioni per le simulazioni, cerco immagini per i PowerPoint: questa è, ad esempio, una delle parti che mi appassionano di più, credo che le mie presentazioni in PowerPoint siano ormai abbastanza famose per la scelta delle immagini. A fare formazione mi diverto ancora molto. Oltre a questo, faccio psicoterapie, supervisioni e gruppi di discussione per professionisti. Quando riesco, scrivo. La parte più noiosa è senza dubbio tutta la parte dell’ ECM, che almeno in parte mi tocca fare per i corsi che organizziamo: la odio!
Quanto impiega ad andare al lavoro?
Da trenta a cinquanta minuti: abitiamo in collina e la sede di CHANGE è nel centro di Torino. Venti minuti per arrivare al Po, poi comincia la scommessa, può succedere che bastino 10 minuti per arrivare in sede, ma possono anche diventare 20, nei casi drammatici 30. Ma almeno i primi venti minuti sono nel verde, con la vista sulle montagne e senza clacson nelle orecchie: non li rimpiango.
Cosa ha appeso alle pareti del suo ufficio?
Non ho un ufficio, ho “squattato” una stanza nella casa del mio compagno, che prima era il suo studio. Di mio ci sono solo i computer (tre!) e il disordine sulla scrivania; le pareti sono tutte libri. Suoi e miei. C’è un orologio, e una foto del nostro cane da cucciolo.
Ricordi, passioni e curiosità…
Qual è stato il suo primo “esame”?
Quello di ammissione alla scuola media, una conquista ottenuta con la prima delle mie battaglie per lo studio con mio padre. Non c’era ancora la media unica, e alla fine della quinta elementare scoprii casualmente che ero l’unica delle mie compagne a non essere iscritta all’esame “di ammissione” che consentiva di passare alla scuola media: mio padre aveva deciso che le elementari bastavano per una ragazza, semmai avrei fatto le commerciali, e poi avrei fatto la dattilografa nel suo studio di commercialista, che naturalmente sarebbe poi passato a mio fratello, debitamente laureato. È stato il mio primo contatto con l’ingiustizia, credo di avere pianto per giorni. Alla fine le suore hanno convinto mio padre a lasciarmi fare l’esame, e a iscrivermi alle scuole medie.
Qual è il suo più grande rammarico?
È sempre legato allo studio, avrei voluto fare medicina, ma di fare il liceo non se ne parlava proprio. Ho dovuto fare le magistrali, il massimo che si poteva consentire a una ragazza secondo i miei. Continua a dispiacermi di non aver potuto fare la pediatra, mi consolo frequentando più pediatri che posso, li perseguito proponendo i miei corsi, e loro li fanno anche, per fortuna…
Ha delle paure nascoste?
No, direi che non sono paurosa n ansiosa, mi porto dietro un fatalismo partenopeo che mi rende immune da timori anticipatori. Sono anche passabilmente ottimista.
Una lettera che non ha mai spedito?
Tutte le volte che mi imbatto in uno di quei centralini telefonici che prima ti rifilano 5 minuti di pubblicità, poi ti danno indicazioni deliranti sui numeri che devi digitare per ottenere questo o quello – che in genere non somiglia neanche lontanamente a quello per cui hai chiamato – e alla fine ti lasciano in balia di un segnale di occupato o di un inquietante silenzio; giuro che scriverò una velenosa e sarcastica lettera che dimostri tutto il mio disprezzo per questi sistemi. Poi non la scrivo. Per dimostrare tutto il mio disprezzo.
Il compleanno più bello?
I 60 anni, festeggiati in concomitanza dei 70 del mio compagno in una vineria torinese con gli amici, le figlie e il gruppo di CHANGE al completo.
C’è qualcosa a cui non rinuncerebbe? E qualcosa a cui vorrebbe rinunciare?
Lo sanno tutti, non rinuncerei mai al caffè, anzi ai caffè, che assommano a una decina al giorno. Fino alle 5 del pomeriggio: dopo passo al caffè d’orzo, se no faccio fatica ad addormentarmi.
Una cosa che la appassiona?
Le persone.
In cucina preferisce stare al tavolo o ai fornelli?
Chi mi conosce sa che ho una passione per la cucina, sono anche piuttosto brava. Mi piace cucinare e mi piace andare al mercato, cercare prodotti di qualità e inabituali, cercare libri di ricette e inventare piatti che in genere non somigliano affatto alle ricette di partenza. Anche se ho sempre meno tempo per organizzare le cene che organizzavo anni fa, sono fiera di dire che posso preparare un pranzo di buon livello in 30 minuti. Provare per credere.
Il suo piatto preferito?
Alcuni piatti della cucina meridionale tradizionale; così al volo direi la pasta con le sarde e le polpette di melanzane: Sicilia e Napoli a pari merito.
Il ristorante che consiglierebbe ad un amico?
Quello in cui è chef il fidanzato di mia figlia, alla Maddalena. È un giovane genio della cucina a base di pesce; al momento lavora al Brigantino, un giorno avrà un ristorante tutto suo, se lo merita.
Qual è la prima pagina che guarda sul giornale?
La prima pagina. Adoro le prime pagine, soprattutto i titoli. La mattina in edicola li leggo tutti, in modo particolare quelli di giornali che non comprerei mai.
La televisione serve a guardare…
Film, senza dubbio. E qualche telegiornale per mantenere il livello di indignazione necessario per non arrendersi al brutto che avanza.
Chi le telefona più spesso?
Il mio compagno, e poi i colleghi di CHANGE . Alle mie figlie telefono io, di solito. Se telefonano loro mi preoccupo, significa che gli serve qualcosa…
Il momento migliore della giornata: l’alba o il tramonto?
A che ora è l’alba? Sempre troppo presto per me.
E il miglior giorno della settimana?
Quello in cui mi accorgo si avere uno spazio vuoto di un’ora ( o di più…) da impiegare come voglio.
Scrittura e lettura
Come trova il tempo di scrivere e dove?
Scrivo ovunque, e ho una capacità che molti mi invidiano: posso scrivere anche per soli dieci minuti, se il tempo che ho è quello, e poi riprendere tre giorni dopo senza eccessiva fatica. Mi dicono che sono fortunata, ma in realtà è una capacità che ho dovuto costruirmi per conciliare le esigenze di donna, di madre, di professionista e di appassionata di scrittura.
Come hanno preso forma i suoi romanzi?
Le storie che costruisco prendono spunto da episodi o da situazioni in cui mi sono imbattuta, a volte anche solo da una frase o da un frammento di conversazione catturato in treno o al bar, e seguono il percorso del “come sarebbe stato se…”: come sarebbe stato se questa persona non avesse avuto un figlio, se non avesse incontrato quel ragazzo, se scendendo dal treno decidesse che… Nessuno dei miei due romanzi, e dei quattro o cinque che mi girano in testa e che forse un giorno riuscirò a scrivere prende spunto da una persona o da un caso reale; e infatti la parte più difficile per me è scegliere fra i diversi snodi che la storia che sto scrivendo potrebbe prendere, e poi fra i diversi finali.
Quello che l’ha coinvolta di più emotivamente?
Non so se il coinvolgimento emotivo è una componente del mio modo di scrivere, direi di no: rischierei di parteggiare per un personaggio o per un altro, mentre a me interessa lo sviluppo della storia.
Il computer è un alleato o un nemico?
Un alleato che ogni tanto entra nei miei incubi. Letteralmente: periodicamente sogno che il mio computer si scioglie come burro, o che subisce diaboliche trasformazioni che rendono inutilizzabili tutti i miei file. Siccome ogni tanto poi succede davvero, non so se sono incubi o premonizioni.
Quale libro ha sul comodino?
Sul comodino ho una pila di libri che il mio compagno, che legge più velocemente di me e ha più tempo di me, mi passa perché “non devo perdermeli”. Ogni tanto mi viene l’angoscia.
Qual è l’ultimo che ha regalato?
Un libro per ridere che si chiama Sempre cara mi fu quest’ernia al colon, che nasce da un blog in cui i partecipanti sono invitati a completare in modo surreale o comico un incipit di libro, di poesia o di canzone. Vengono fuori cose come ” Si sta come d’autunno sugli alberi… le scimmie” oppure “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie… cioè stretti”. Roba che ricorda gradevolmente le crisi di ridarella a scuola.
Tempo libero
Quale musica ascolta e dove?
De Andrè, Vasco Rossi e Guccini in auto. Musica classica a casa.
L’ultima volta che è andata al cinema o a teatro?
Mesi? Non ricordo più, abitare fuori città rende pigri. E poi i film li posso guardare sul mio maxischermo.
Treno, auto o aereo?
Non ho preferenze, dipende dalla destinazione. In ogni caso bisogna rassegnarsi ai ritardi.
La vacanza più bella?
L’anno scorso in Sardegna con la mia figlia più grande e i miei due nipotini, ospiti della figlia “piccola” che vive alla Maddalena.
La città europea più bella?
Parigi.
Lo sport preferito?
Tutto quello che si svolge nell’acqua, preferibilmente di mare: nuoto anche in piscina, ma dal mare non uscirei mai.